La compagnia dello Sposo – Lunedì della II settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
Lunedì della II settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
Eb 5,1-10 Sal 109
Dalla lettera agli Ebrei Eb 5,1-10
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì.
Fratelli, ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek».
Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchìsedek.
Figliolanza e fraternità, obbedienza e solidarità
L’autore della Lettera agli Ebrei riconosce che la messianicità di Gesù consiste nel suo sacerdozio del quale sottolinea prima la solidarietà con gli uomini e poi l’obbedienza a Dio. La solidarietà e l’obbedienza sono le due facce dell’unico sacerdozio di Cristo. Viene instaurato un parallelismo tra il sommo sacerdozio ebraico e il pontificato di Gesù. Il Sommo Sacerdote ebraico aveva fondamentalmente la funzione di intercedere per i peccatori presso Dio al fine di ottenere il perdono dei peccati. Questo avveniva mediante dei sacrifici che il sommo sacerdote offriva per i peccati suoi e di tutto il popolo. La solidarietà del Sommo Sacerdote era basata sul fatto che era uomo e, dunque, peccatore. Il perdono lo chiedeva per sé e per i suoi fratelli. Anche Gesù è nostro fratello perché partecipa della debolezza umana e soprattutto della sofferenza subita ingiustamente.
Nessuno può auto proclamarsi sacerdote, ma questo ministero si esercita in virtù della chiamata di Dio, come era stato stabilito sin da Aronne. L’autorità del Sommo Sacerdote non lo colloca al di sopra degli altri ma a loro servizio. Il sacerdozio, quale servizio agli altri, è esercizio di fraternità. Come non ci si può autoproclamare Sommo Sacerdote, così non si scelgono i fratelli ma si accolgono come un dono da custodire nella stessa maniera con la quale si riceve l’autorità e la si esercita. Ogni autorità, che sia regale o sacerdotale, viene da Dio perché essa sia esercitata a vantaggio di tutti i fratelli. Gesù riceve la pienezza dell’autorità perché nella Pasqua di morte e di risurrezione ottiene la corona regale della vittoria sul peccato e sulla morte e l’investitura sacerdotale. Sulla croce Gesù non offre sacrifici ma sé stesso con preghiere e suppliche, tra grida e lacrime. Il Cristo non ha scelto di soffrire ma ha celebrato il suo sacrifico unendosi totalmente agli uomini peccatori e caricandosi anche del dolore innocente. Dall’altra parte per la sua piena obbedienza a Dio è stato risuscitato portando la liberazione a tutti gli uomini dal peccato e dalla morte. La vicenda pasquale di Gesù, letta nell’ottica della fede, ci aiuta a comprendere che essa ci aiuta a crescere nella duplice direzione della maturità umana: essere figlio e fratello. L’ obbedienza a Dio, ovvero l’adesione alla Sua volontà, fatta con libertà e fiducia, s’intreccia con la solidarietà fraterna che può giungere a subire il martirio da innocente. Chi si affida a Dio usa gli strumenti della mitezza per lottare contro il male, il primo dei quali è la preghiera. Essa non è una formula magica segreta elaborata per perseguire fini personali. Si tratta invece del mondo con cui vivere l’intimità filiale col Padre e quella fraterna nei gesti di una solidarietà e compassione.
+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 2,18-22
Lo sposo è con loro.
In quel tempo, i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Vennero da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno.
Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri, e si perdono vino e otri. Ma vino nuovo in otri nuovi!».
La compagnia dello Sposo
Le nozze sono un’occasione per fare festa nella quale gli invitati partecipano alla gioia degli sposi. Gesù si manifesta come il Dio sposo che ha organizzato la festa per le sue nozze, simbolo dell’alleanza d’amore stipulata con il suo popolo. Incarnandosi Dio si è unito ad ogni uomo partecipando con lui alla precarietà della condizione mondana. Morendo sulla croce e risorgendo ha fatto di questa unione un matrimonio attraverso il quale ha riscattato l’uomo dal potere della morte e gli ha donato quello della vita eterna. I discepoli di Gesù sono persone dalle quali traspare la gioia di essere con Lui. Stare con Gesù è sempre una festa perché egli ci fa partecipi della sua gioia, della sua forza, del suo coraggio, della sua sapienza. Se diamo per scontato questa relazione e non coltiviamo l’amicizia con lui, si finisce per non avvertire più la gioia di essere amati, correndo il rischio di sentirsi soli o abbandonati nei momenti della prova. È in questi frangenti della vita che il discepolo di Gesù è chiamato a digiunare, ovvero a sentire anche nel corpo il bisogno di Dio per ravvivare il desiderio di una vera relazione d’amore con Lui e con i fratelli. La pratica del digiuno non può essere un modo per acquisire meriti davanti a Dio o una forma di ostentazione della propria religiosità per guadagnare l’approvazione degli uomini. Il digiuno è un esercizio che fa parte della ginnastica del desiderio affinché ci si possa preparare all’incontro con l’amato. Digiunare vuol dire rinunciare al narcisismo che ci rende individui anonimi, chiusi nell’isolamento dell’autoreferenzialità. Rinunciando al peccato ci rendiamo disponibili a lasciarci rinnovare dall’azione dello Spirito che mette nel cuore la gioia di amare Dio e di servire i fratelli in letizia.
Signore Gesù, Sposo della Chiesa che l’hai amata donando la tua vita per Lei affinché sia sempre giovane e feconda, rendici partecipi della gioia che porti nel cuore di essere servo della volontà del Padre. Fa che possiamo godere della tua compagnia e lasciarci guidare dalla tua parola per fare della nostra vita un canto di lode e del nostro servizio un’occasione di festa tra i fratelli che si vogliono bene. Purifica la mente da ogni pensiero giudicante che induce al disprezzo degli altri, che crea barriere di silenzio e incomunicabilità, che gonfia di orgoglio e alimenta la tendenza al narcisismo. Insegnami ad esercitarmi nel vero digiuno, a rinunciare alla competizione conflittuale, all’autoreferenzialità che isola, al fine di fare del mio cuore l’otre nuovo, nel quale riversare il vino nuovo della tua Parola, e la sorgente dalla quale ognuno possa attingere una parola di consolazione e speranza.