Diffidare dalle false imitazioni – IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Diffidare dalle false imitazioni – IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

25 Aprile 2021 0 Di Pasquale Giordano

IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

At 4,8-12   Sal 117   1Gv 3,1-2   

+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 10,11-18

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Diffidare dalle false imitazioni

Gesù sembra invitare a diffidare dalle false imitazioni. Ci sono quelli che appaiono «pastori» ma sono nient’altro che «mercenari». Il mercenario è vestito come il pastore e sembra svolgere la medesima funzione, ma non lo è, perché, limitandosi a ricoprire solo un ruolo senza coinvolgersi con il gregge, non si sente parte di esso. A lui non importa il destino delle pecore ma il proprio interesse. La funzione del mercenario, il falso pastore, è a tempo determinato non perché la missione che si assume ha una data di scadenza, ma perché egli stesso la interrompe quando non ha più interesse a portarla avanti. Alla prova dei fatti il falso pastore invece di essere alleato del gregge lo è del lupo che viene per rapire e disperdere. Per non compromettersi con il lupo volta le spalle a chi è nel pericolo e fugge dalle sue responsabilità che invece lo avrebbero dovuto portare ad affrontare. 

Questa metafora non deve indurre a giudicare gli altri, ma a discernere nella propria coscienza quali sono i sentimenti e le intenzioni che determinano i comportamenti. Le piccole azioni della vita quotidiana danno la forma allo stile di vita che scegliamo di assumere che comunque si ispira nei fatti ad un modello di comportamento: quello del «Buon Pastore» o del «mercenario». Il primo è fondato sull’essere a servizio degli altri e il secondo basato sulla funzione e sul ruolo che si incarna. La domanda che suscita la parabola del Buon Pastore è la seguente: «Quale modello di vita seguo?». Questo interrogativo è fondamentale soprattutto nei momenti di crisi nei quali è messa in discussione la relazione con gli altri. In definitiva, nella crisi delle relazioni ci si trova ad un bivio nel quale bisogna scegliere chi si vuole essere, quale modello di vita incarnare, prima ancora di capire cosa fare e come comportarsi. Il «mercenario» è la persona profondamente sola che instaura relazioni di convenienza e che svolge una funzione attraverso la quale vuole dimostrare a sé stesso e agli altri ciò di cui è capace. Ma quando si presentano situazioni nelle quali ci si deve esporre mostrando la parte più vera di sé il «mercenario» scappa. Questo accade in ciascuno di noi nel momento in cui ci siamo assunti l’onere del servizio pensando più a quello che avremmo potuto guadagnare piuttosto che al lavoro su noi stessi da fare per vivere quel compito con responsabilità e fino in fondo. I ruoli sono importanti, come lo sono anche le funzioni ad essi collegati, ma essi rimarrebbero contenitori senza contenuto, titoli senza significato, se non fossero espressione di relazioni umane attraverso le quali passa la cura di cui tutti abbiamo bisogno. Nella vita non è importante il nome del ruolo che si ricopre ma il modo con cui lo interpreto. Il «Pastore» non è il nome di una funzione ma quello di chi offre, attraverso un servizio, sé stesso. Di «Buon Pastore» ce n’è solo uno, Gesù Cristo, al quale tutti gli altri «pastori», se vogliono essere veramente tali, devono ispirarsi. 

Il «Buon Pastore» entra nel recinto dalla porta, cioè attraverso l’accesso aperto dalle relazioni con gli altri.  La voce di Gesù è quella del Buon Pastore che conosce le sue pecore, le conosce per nome, perché il nome lo ha dato lui stesso. Gesù ci conosce più di noi stessi. Da lui riceviamo un nome che dice ciò che siamo ai suoi occhi. Come il Padre ama il Figlio così Gesù ama noi donando la sua vita. Il «Buon Pastore» non è un titolo che definisce una funzione da svolgere, ma è il nome che rivela la vocazione da vivere e realizzare progressivamente. Gesù ci propone di conoscerlo e di condividere con lui la sua vocazione: fare della propria vita un dono all’altro. Fare della propria vita un dono è il progetto di tutta una vita che si realizza passo dopo passo seguendo la voce del Buon Pastore e imitandone gli atteggiamenti. 

Attraverso Gesù, Dio ci dà il nome, dà il suo nome, ovvero ci adotta come figli, si assume la responsabilità di Padre. Non si tratta di una formalità giuridica ma di una realtà concreta che determina il modo con il quale Dio si relaziona con noi. Conoscere è una scelta di vita caratterizzata dal prendersi cura dell’altro facendosi carico delle sue fragilità e condividendole. 

A noi il compito di ricevere questo nome e interpretarne il suo significato nelle nostre scelte di vita. Abbiamo ricevuto un nome, ossia ci è stata data la vita senza che noi lo sapessimo e senza che noi ne fossimo consapevoli; la vita che noi ci ritroviamo è frutto della cura che qualcuno ci ha donato. Conoscere il nostro nome significa riconoscere che c’è un amore che ci ha preceduto e ci ha generato, che è previdente anticipando i nostri bisogni ed è provvidente perché ci viene incontro in ogni nostra necessità, soprattutto quella di ritrovarci dopo esserci persi.

Conoscere è cosa diversa dal comprendere. La conoscenza che caratterizza la relazione di Gesù con il Padre e con noi, suo gregge, non è un puro esercizio della mente che pensa, ma è un’esperienza del cuore che sente con gli altri, sogna insieme agli altri, collabora con gli altri e finalmente si dona agli altri. 

Signore Gesù, il mio «Pastore», mi conosci per nome perché Tu mi ha dato la vita, la tua vita per me. Ti ringrazio perché non mi ha voltato le spalle, non sei scappato inorridito davanti alla mia debolezza, non hai tradito per paura la tua missione. Hai avuto compassione della mia miseria e mi sei venuto incontro. Ti sei caricato della mia sofferenza, ti sei addossato i miei peccati e mi hai liberato dai miei nemici. Grazie, «Pastore bello», perché mi hai fatto conoscere il vero volto di Dio, voce di Madre e parola di Padre. Grazie, «Pastore buono», perché m’insegni a farmi compagno di gregge anche di chi si trova in un altro recinto perché gli steccati, anche se ci differenziano, non possono impedirci di ascoltarti, seguirti e appartenerti.