San Michele e il combattimento spirituale
San Michele e il combattimento spirituale
L’iconografia classica di san Michele lo raffigura nell’atto di combattere contro il dragone. L’immagine s’ispira al cap. 12 del Libro dell’Apocalisse dove ai vv. 7-9 dice:
«Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli».
Il capitolo dell’ultimo libro della Bibbia si apre con l’apparizione di un grandioso segno del cielo. Si tratta della donna avvolta della luce del sole con la luna sotto i piedi e con la corona di dodici stelle. La donna è tra i dolori del parto e sta per dare alla luce il figlio. L’immagine suggestiva che si staglia nitida nel cielo indica gli eventi della storia della salvezza dal punto di vista di Dio. La donna è il popolo di Dio, l’Israele del Signore che da una parte risplende della stessa gloria di JHWH dall’altra domina e sottomette le potenze mondane non con la forza militare e la violenza, ma con la potenza dell’amore che genera vita. La figura della donna richiama quella di Maria, la madre di Gesù, perché in lei trovano compimento le promesse che Dio ha fatto di unirsi stabilmente al suo popolo per renderlo fecondo. In questo senso La Donna-Maria è anello di congiunzione tra l’antico e il nuovo Israele.
Partorire significa dare alla luce il bambino nascosto nel grembo. Sicché il grandissimo segno è la passione, morte e risurrezione di Gesù. La Pasqua di Cristo, il passaggio attraverso la sofferenza da questo mondo al Padre, da una parte manifesta la gloria di Dio e del suo Messia che pone il suo trono nel cielo, dall’altro inaugura anche l’esodo dalla schiavitù alla libertà dei cristiani.
Accanto a questo grandioso segno appare quello mostruoso del drago che tenta di divorare il bambino. L’immagine richiama il tentativo del Maligno di vanificare la passione di Gesù cercando di trattenere nelle fauci della morte il Cristo, senza riuscirci.
In seguito all’intervento di Michele che combatte con i suoi angeli contro il drago e suoi adepti, essi vengono cacciati dal cielo.
La voce di Gesù vivo e risorto spiega alla comunità riunita nell’eucaristia cosa è accaduto: il maligno, l’accusatore degli uomini, che chiama fratelli, è stato spodestato. Egli non ha più il potere di dare la morte e trattenere per sé gli uomini. Essi hanno ricevuto da Gesù il potere di combattere contro Satana, colui che seduce e inganna, perché, con la forza dello Spirito Santo possono vincerlo e ridurlo al silenzio. Lo Spirito Santo, dono del Risorto, permette di combattere contro il male con la forza dell’amore contenuta nelle opere di carità che i credenti compiono.
I martiri già partecipano alla vittoria di Cristo essendo passati con lui attraverso la sofferenza e la morte con la stessa fede che ha accompagnato Gesù nel dramma della sua passione per poi essere risuscitato dai morti. Michele e suoi angeli sono dunque l’immagine del combattimento di Dio e dei santi contro il maligno e la loro vittoria su Satana.
Se il Cristo risorto è il vincitore sulla morte e sul male, questo non significa che è finita l’opera del male di cui invece pagano le conseguenze coloro che sono ancora sulla terra e sono perseguitati. Il combattimento si sposta dal cielo alla terra e questo spiega come mai i cristiani, pur facendo il bene vengono perseguitati e sono oggetto di accanimento.
La lotta continua, ma il cristiano sa, che non deve abbattersi se si sente accerchiato perché fa parte della sua storia. Ma deve affrontare la battaglia con le armi della fede, della speranza e della carità insieme con Gesù. Davanti al male della calunnia, della critica distruttiva, del pettegolezzo, della ingratitudine, degli attacchi gratuiti, delle accuse ingiuste e ingenerose, di un problema fisico o psicologico improvviso, un capovolgimento della situazione economica imprevista, non dobbiamo arrenderci. Il lasciarci andare e l’arrenderci significa cedere le armi e offrire al maligno le chiavi della nostra vita.
Combattere l’ostilità del Maligno con il Signore
L’autore della lettera agli Ebrei esorta i cristiani con queste parole:
«Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento. Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli:
Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore
e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui;
perché il Signore corregge colui che egli ama
e percuote chiunque riconosce come figlio.
È per la vostra correzione che voi soffrite!» (Eb 12, 1-7).
Nella vita ci scontriamo con tante ostilità che mettono a dura prova la nostra integrità psicofisica. In questi momenti è necessario pensare che non siamo soli perché il battesimo ci ha inseriti nella comunione dei santi che con la loro preghiera ci sostengono nella prova. Il peso dei pensieri negativi sia condiviso nella preghiera con il Signore al quale affidiamo ogni nostra angoscia, preoccupazione oppure rimorsi e sensi di colpa. L’autore della Lettera agli Ebrei invita a distogliere lo sguardo dal nostro io che ripensa al male ricevuto e a quanto è ingiusto il mondo, a quanto non valga la pena fare il bene, per rivolgerlo a Gesù che ha portato il peso del peccato nel suo corpo sul legno della croce. Di fronte alla tentazione di usare il suo potere per salvare sé stesso sceglie di non tener conto del disonore, del giudizio degli altri, del disprezzo dei superbi per concentrarsi sulla volontà di Dio e l’amore agli uomini. Nella sofferenza più facilmente siamo portati a uscire fuori strada voltando le spalle a tutti e a rinchiuderci nell’egoismo con l’illusione di salvarci pensando solo a noi stessi. La sofferenza, soprattutto quella innocentemente subita, non è una punizione di Dio ma è un’occasione da cogliere per vivere più uniti a Gesù ed essere educati all’amore che ci rende sempre più forti nella santità.
Il combattimento contro il maligno non è una battaglia contro qualcuno dei nostri fratelli che identifichiamo come nemico. Infatti, il libro della Genesi ci ricorda che la seduzione del maligno consiste soprattutto nel pervertire la mente e la capacità di conoscere. Egli ci fa vedere il male dove c’è l’amore. L’invidia è il modo cattivo con cui vediamo gli altri e li percepiamo come una minaccia. L’invidia induce all’avidità e l’avidità alimenta l’invidia. Caino per invidia uccide Abele, Giacobbe per invidia ruba la primogenitura a Esaù innescando una lotta tra fratelli che arriva allo scontro presso il fiume Jabbok. La notte precedente all’incontro Giacobbe lotta con l’angelo di Dio che lo colpisce al nervo sciatico e cede. Proprio il cedimento segna la sua vittoria che gli fa guadagnare il nome nuovo d’Israele. Cedere a Dio significa ascoltarlo, obbedire alla sua voce, interiorizzare la sua parola, mettere in pratica i comandamenti, in particolare quello della carità fraterna. Quella battaglia con Dio lo cambia interiormente perché non vede più Esaù come un avversario ma come fratello con il quale cercare la riconciliazione. Essa si raggiunge partendo dal riconoscere l’altro come parte della propria vita e, come tale, destinatario della condivisione dei propri beni e destinatario del proprio amore (Gen 32).
La preghiera, come l’agonia – che significa lotta – di Gesù nell’orto del Getsemani, non è lottare contro Dio, ma con Lui contro lo spirito del male che vorrebbe farci fuggire davanti alla croce e di fronte al Crocifisso. Gesù chiede ai suoi discepoli di pregare insieme con lui, per non cadere nella tentazione (Lc 22, 35-46).
Ai discepoli che si meravigliavano per il fatto che non erano riusciti a cacciare il demonio da un ragazzo ma che ci era voluto l’intervento risolutivo di Gesù, egli replica che quel tipo di demonio si caccia solo con la preghiera (Mc 9, 14-29). Non si tratta di imparare e usare formule magiche, ma di essere educati da Gesù ad una relazione con Dio sempre più intima nella quale passare dall’essere figli, magari anche ligi ai doveri, ma ingrati e pretenziosi, a figli umili, grati e riconoscenti.
Il buon combattimento della fede
Il Maligno combatte contro l’uomo non solo inducendolo a fare il male ma soprattutto distogliendolo dal fare il bene. Satana è colui che ci distrae attirando la nostra attenzione verso qualcosa di diverso dalla nostra vocazione. C’è un cattivo combattimento che è quello guidato dal maligno, e la buona battaglia capeggiata da Cristo, il Vincitore.
Dobbiamo saper discernere in quale schieramento ci troviamo e quale bandiera seguiamo, quale padrone serviamo. Parlando a Timoteo Paolo fa riferimento alla sua esperienza di bestemmiatore cioè di colui che in nome di Dio faceva guerra ai fratelli. La legge di Dio era usata per sottomettere con violenza. Ricordiamo anche il racconto che fa Luca negli Atti degli Apostoli. Nella Prima lettera a Timoteo Paolo ricorda come si era fatto sedurre dal maligno e accecare dall’orgoglio al punto di perseguitare i cristiani. L’incontro con il Signore lo ha convertito e ha cambiato il fine per cui vivere e lottare: non più per imporre una verità o una religione, ma tendere la mano a tutti per invitarli ad entrare nella comunione con Dio. La luce di Cristo lo ha guarito dalla cecità del peccato e lo ha reso forte nel condurre la buona battaglia finalizzata a includere tutti gli uomini, anche quelli che prima erano considerati nemici, nel grande abbraccio di Dio. Il fine del buon combattimento è la riconciliazione tra fratelli, come era avvenuto tra Giacobbe/Israele e suo fratello Esaù.
Il combattimento spirituale avviene nella interiorità di ogni singolo credente che è chiamato a “cedere” a Dio per essere veramente vincitore. Lui stesso ci offre la corona della vittoria donandoci lo Spirito dell’amore. La fede è il bene più prezioso da dover custodire in tutti i modi. Essa è il tesoro che è custodito in noi che siamo fragili come i vasi di terracotta.
Da qui l’esortazione di Paolo a Timoteo circa il combattimento della buona battaglia:
«Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole. Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero. Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (2Tm 4,1-8).
Vigilare significa non cedere al torpore e alla tiepidezza dello scoraggiamento e del pessimismo, alimentato dalla critica e dalla mormorazione che coviamo nel cuore. Vigilare comporta l’attendere. Attesa e attenzione sono connessi tra loro. Chi è attento e vigilante attende con desiderio l’arrivo di qualcuno per accoglierlo. Attenzione significa farsi trovare pronti, aperti, disponibili all’accoglienza. La battaglia si prepara non solo calcolando le mosse dell’avversario per controbattere, ma creare lo spazio interiore perché lo Spirito Santo, abitandoci, possa ispirare pensieri e le parole di Dio. Gesù aveva invitato i suoi discepoli a non «preparare prima la propria difesa» perché nella disputa col mondo non dobbiamo fuggire o giustificarci ma testimoniare la nostra fede con coraggio, rispetto e carità annunciando la parola di Dio, sia in contesti favorevoli sia in quelli sfavorevoli. Il ministero della parola si prepara non a tavolino, ma in ginocchio, nella preghiera ponendoci alla presenza di Dio per lodarlo, supplicarlo e invocarlo.
San Paolo, rivolgendosi alla Chiesa di Efeso, raccomanda:
«Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.
Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi. E pregate anche per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza il mistero del Vangelo, per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quel coraggio con il quale devo parlare» (Ef 6, 10-20).
Nel rito del battesimo l’unzione con l’olio dei catecumeni richiama il gesto col quale i lottatori si preparavano alla gara di forza. Essi venivano unti per sfuggire più facilmente alla presa dell’avversario. La battaglia del cristiano, come abbiamo già detto, non è contro qualcuno, ma contro lo spirito mondano che ci insidia dal di dentro e che attacca il nostro cuore. È da lì che escono «i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7, 21-22).
Dal cuore escono queste cosa «nel giorno cattivo» cioè quando siamo messi in crisi dalle prove della vita, quando vengono meno le nostre certezze e scricchiola la speranza fondata sulle cose di questo mondo.
Combattere significa reagire alla sofferenza agendo creativamente nel bene. In questo senso la resilienza è la forza di agire nella prova facendo il bene, non secondo i criteri umani dell’utile, dello scambio di favori o del guadagno, ma secondo la logica di Dio. Non si tratta di difendere verità astratte o tradizioni umane oppure fare questione di principi, ma di difendersi dalla seduzione del maligno che ci contrappone gli uni agli altri. Dobbiamo difendere la fiducia in Dio Padre e provvidente e tra di noi che, stando sulla stessa barca, potremmo salvarci dal sicuro naufragio solo se ci aiutiamo con generosità.
San Michele Arcangelo, prega per noi!