La mitezza del Pastore buono e la docilità del suo gregge

La mitezza del Pastore buono e la docilità del suo gregge

12 Maggio 2019 Off Di Pasquale Giordano

La mitezza del Pastore buono e la docilità del suo gregge – IV DOMENICA DI PASQUA(ANNO C)

At 13,14.43-52   Sal 99  Ap 7,9.14-17

+ Dal Vangelo secondo Giovanni(Gv 10,27-30)

Alle mie pecore io do la vita eterna.

 

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.

Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.

Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

La quarta domenica di Pasqua è chiamata “del Buon Pastore” perché si medita un brano del discorso che Gesù fa usando la metafora tratta dal mondo pastorale. In un primo momento descrive le caratteristiche del vero pastore che si distingue dal ladro o dal brigante che silenziosamente scavalca il recinto per rapire le pecore, o dall’estraneo che non conosce le pecore. Il buon pastore invece si annuncia al guardiano, che gli apre la porta dell’ovile, e poi chiama per nome ciascuna delle sue pecore. Esse riconoscono la voce di colui di cui si possono fidare e lo seguono. La voce del pastore è dolce e rassicurante e l’esperienza suggerisce che è affidabile perchè si prende cura di loro. Gesù infatti rivela il senso della sua missione: “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10, 10). Al contrario del mercenario, al quale non stanno a cuore le pecore ma solo il suo interesse, il buon pastore rimane con il gregge quando esso è assalito dal lupo. La conoscenza che il pastore ha delle pecore si traduce in una intimità tale che egli entra in piena sintonia con esse facendo suoi bisogni e paure. Si tratta della compassione propria di Dio che ascolta il grido del povero che si rivolge a lui e interviene con prontezza perché non soccomba sotto il peso della prova.

Tuttavia ci sono anche persone che provocano Gesù; c’è chi lo accusa di essere un indemoniato, di essere un falso Cristo e un bestemmiatore perché parla di Dio come suo Padre e di sé come suo Figlio. Il fatto che Gesù sia il Figlio di Dio è testimoniato dalle sue opere nelle quali il Padre si fa vedere e ascoltare. Chi con umiltà accetta l’aiuto di Dio lo ascolta, si apre a quella intimità che permette al Signore di unirsi a lui nel profondo del cuore. Avviene così che la persona dal di dentro sente una forza che lo spinge a seguire Gesù.

Se c’è il buon pastore che si differenzia dal ladro, dall’estraneo e dal mercenario, c’è anche la pecora che è chiamata a scegliere se appartenere al gregge del buon pastore, che dà la sua vita e che protegge le sue pecore, oppure estraniarsi dal gregge e sfuggire dalla sua mano esponendosi al pericolo di perdersi. Chi rimane nella mano di Gesù, che è la mano del Padre, non teme nulla perché niente potrà separarlo dal suo amore. La mano di Dio non pesa sulla testa degli uomini, ma è tesa per offrire una possibilità di salvezza. La mano di Dio è tenera e forte al tempo stesso, perché in Lui coesistono complementariamente la tenerezza del padre e la fermezza del giudice.

Il credente non è un semplice esecutore di ordini, ma è colui che, essendo in costante ascolto della voce di Dio, ne riconosce la presenza e si fa guidare dalla sua Parola. La credibilità e la forza del buon pastore risiedono nella sua mitezza per la quale egli è l’agnello che toglie il peccato del mondo. Il pastore si fa agnello dando la sua vita, così il gregge lo segue sulla via per la quale impara anch’esso a farsi dono all’altro per essere una cosa sola. Chi ascolta Gesù, e rimane sotto la sua protezione, attraversa le difficoltà della vita trasformandole in occasioni nelle quali vivere la comunione con Dio nella fiducia del suo aiuto e con i fratelli nella generosità del dono di sé.

 

Auguro a tutti una serena domenica e vi benedico di cuore!