
La benedizione del misero e la maledizione del miserabile – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – Lectio divina
VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C) – Lectio divina
Ger 17,5-8 Sal 1 1Cor 15,12.16-20

O Dio, Signore del mondo,
che prometti il tuo regno ai poveri e agli oppressi
e resisti ai potenti e ai superbi,
concedi alla tua Chiesa
di vivere secondo lo spirito delle beatitudini
proclamate da Gesù Cristo, tuo Figlio.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Geremìa Ger 17,5-8
Maledetto chi confida nell’uomo; benedetto chi confida nel Signore.
Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti».
Chi crede in Dio resta saldo nella prova
Le parole del profeta Geremia richiamano subito alla mente il portale d’ingresso del Libro dei Salmi. Infatti, nel Salmo 1 viene dichiarato beato l’uomo che non segue i consigli dei malvagi e non si conforma all’atteggiamento dei superbi, ma si lascia guidare dalla parola di Dio che medita nel cuore in ogni momento. Geremia definisce giusto l’uomo che confida in Dio e che trova in Lui la forza di superare ogni ostacolo. I due testi sono accomunati dalle immagini tratte dall’ambiente tipicamente mediorientale in cui si alternano paesaggi stepposi e oasi verdeggianti. La differenza la fa la presenza dell’acqua. Geremia giunge alla conclusione che Dio è come l’acqua, essenziale per la vita dell’uomo. Se egli custodisce nel cuore, come una cisterna, la Sua parola o fa scorrere dentro di sé la misericordia, la sua vita fiorisce e porta frutto in qualsiasi condizione, anche nella prova. Al contrario, colui che è pieno di sé ma vuoto di Dio non supera il tempo della prova finendo miseramente i suoi giorni.
Salmo responsoriale Sal 1
Beato l’uomo che confida nel Signore.
Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 15,12.16-20
Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede.
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?
Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
Cristiani, risorti in Cristo
La risurrezione dei morti è una verità che non coincide con l’immortalità dell’anima, accettata anche dai Greci come dagli Ebrei, ma trova pieno senso nella risurrezione della carne dai morti di Gesù. Negare la risurrezione della carne significa escludere dalla fede la risurrezione dai morti di Gesù. Il che fa crollare tutto l’impianto della fede cristiana il cui messaggio di salvezza si fonda sulla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Risuscitando dai morti Gesù inaugura una vita nuova che è la vita secondo lo Spirito e non secondo la carne. Per questo Paolo dice che il cristiano, abitato dallo Spirito di Cristo, non può solamente coltivare la speranza propria della vita terrena ma è animato dalla speranza del Risorto di vivere sempre di più la sua vita, amando fino a dare la propria vita per i fratelli. Cristo è la primizia della risurrezione, il primogenito di una nuova discendenza di uomini che vivono la vita nuova dello Spirito Santo.
Dal Vangelo secondo Luca Lc 6,17.20-26
Beati i poveri. Guai a voi, ricchi.
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
LECTIO
Contesto
Dopo l’avvio del ministero itinerante di Gesù in Galilea con la narrazione dei fatti accaduti a Nazaret e a Cafarnao (4,14-44), l’evangelista presenta una serie di episodi che vanno dalla chiamata dei primi discepoli (5,1-11.27-28) all’elezione degli apostoli (6,12-16). In questa cornice Luca sviluppa il tema della missione di Gesù che ha come destinatari i malati la cui guarigione diventa motivo di stupore della folla, che sempre più numerosa lo segue, e di resistenza delle autorità religiose che, invece, sono molto critiche nei confronti di lui e dei suoi discepoli. Stigmatizzano l’atteggiamento accogliente e disponibile nei confronti dei peccatori e la sua interpretazione della Legge, che reputano troppo aperta e lassista. Si delinea una polarizzazione dei personaggi: da una parte la folla che vede e s’interroga sulla persona di Gesù e le autorità religiose che invece constatano e giudicano. Gesù non si circonda di persone particolarmente istruite nella legge, ma di gente del popolo e anche di chi è inviso ad esso, come Levi il pubblicano. Se i detrattori di Gesù lo accusano di essere divisivo perché i suoi gesti e le sue azioni sembrano delineare una rottura con la tradizione, l’evangelista, invece, vuole sottolineare che c’è uno sviluppo nella continuità. Infatti, come Mosè, Gesù va verso il monte che è il luogo del dialogo con Dio, dove trascorre tutta la notte «immerso nella preghiera». Luca rappresenta spesso Gesù in preghiera, negli snodi importanti della vita o nei momenti di crisi della missione. Si tratta del «colloquio nello Spirito» che gioca un ruolo fondamentale nelle scelte profetiche di Gesù. L’evangelista in At 1,2 dice che gli apostoli furono scelti da Gesù «per mezzo dello Spirito Santo».
Il v.17 introduce un piccolo sommario che precede il discorso di Gesù chiamato «della pianura» perché, dal monte della preghiera e dell’elezione dei Dodici, scende con essi «in un luogo pianeggiante» dove erano ad attenderli la folla dei suoi discepoli, proveniente da ogni parte, desiderosa di essere consolata dalla sua parola e guarita dal contatto col suo corpo (cf. 6,17-19).
Il discorso, che si apre con le beatitudini e i guai (vv. 20-26), si sviluppa in una serie di detti sapienziali attorno al tema dell’amore verso il nemico (vv. 27-35) e dell’amore fraterno che si concretizza nel non giudicare (vv. 36-42), per concludersi con due parabole sull’importanza dell’agire secondo quanto si è ascoltato. Luca concentra tutta l’attenzione sul comandamento dell’amore come legge centrale della vita cristiana e ne accentua le esigenze concrete. Nel «discorso» emergono i temi cari all’evangelista: l’amore di Gesù per i poveri, il problema della ricchezza e la preoccupazione del sorgere di false tendenze giudaizzanti o gnosticizzante (eresia del docetismo e dello gnosticismo). L’insegnamento non è riservato ad uso interno, ma espone le esigenze cristiane a coloro che vogliono conoscere come si vive da cristiano.
Testo
La pericope liturgica si compone di due parti distinte; il v. 17 funge da introduzione al discorso di Gesù, che si sviluppa nei vv. 20-49 e che prende il nome dall’ambientazione presentata nel breve sommario dei vv. 17-19, che lo precede. In esso Gesù è presentato mentre scende dal monte dove aveva convocato dodici dei suoi discepoli e li aveva costituiti apostoli. Con essi si ferma a valle dove c’è ad attenderlo una folla sia di connazionali, provenienti dalla Giudea e da Gerusalemme, che di stranieri originari della costa settentrionale abitata fai Fenici. Luca vuole sottolineare che i pellegrini, pur provenendo da tradizione, cultura, lingua diverse, sono accomunati dal desiderio di ascoltare nella speranza di essere sanati, perché gli spiriti impuri non agiscono solo negli stranieri ma anche nei Giudei e in coloro che hanno più familiarità con le Scritture ma rischiano di ammalarsi di legalismo. La lettura che fa Luca della realtà non si ferma al solo bisogno di guarigione fisica delle persone ma rivela l’origine spirituale del loro malessere. Gesù, dunque, non è un uomo particolarmente dotato di conoscenze, capacità o competenze terapeutiche ma è un profeta la cui parola è efficace perché veicola la potenza dello Spirito Santo di cui è impregnata. Dunque Gesù è colui che si prende cura innanzitutto dell’interiorità delle persone con le quali viene in contatto. Tuttavia, Gesù non si sottrae al contatto fisico perché la relazione che egli vuole instaurare non prescinde dalla condizione sociale nella quale si trovano i suoi interlocutori. La fede, suscitata dall’incontro personale con Gesù, tocca la vita, in tutti i suoi aspetti, e ne determina l’esito finale.
Il primo discorso di Gesù in Luca ha delle affinità contenutistiche con quello di Matteo, chiamato «della montagna», ma anche delle differenze che si notano sin dall’inizio; infatti, diversa non è solo il luogo in cui è ambientato ma anche la composizione dell’incipit: Matteo elenca otto beatitudini mentre Luca ne riporta quattro aggiungendo ad esse altrettanti «guai». Al contrario di Matteo, le cui beatitudini sono rivolte a soggetti in terza persona per mettere in rilievo che i destinatari sono categorie di persone, nella redazione lucana Gesù si rivolge al «voi» dei discepoli-ascoltatori che vivono una condizione di vita penosa.
L’aggettivo greco che traduciamo con «beato» indica l’interiore felicità di una persona. In ebraico il termine corrispondente è usato nel linguaggio sapienziale per definire colui che osserva la Torà e perciò è benedetto da Dio. Nell’AT, soprattutto nella letteratura sapienziale, il genere letterario delle beatitudini è inteso come indicazione della via della felicità. Nei Salmi sapienziali si delinea il contrasto tra i poveri e giusti che si fidano di Dio e i ricchi e gli empi, in relazione all’agire futuro di Dio. Sulla bocca di Gesù le beatitudini dichiarano felici i poveri perché è vicino Dio che sta per attuare la sua funzione regale escatologica, prendendosi cura in particolare di coloro che sono nel bisogno e che attendono la consolazione. A differenza delle beatitudini del giudaismo che dichiarano felice e promettono la salvezza futura a chi, con il suo comportamento, manifesta la fedeltà a Dio e alla Legge, Gesù non accenna ad alcuna condotta previa come condizione per essere dichiarato beato. Gesù con le beatitudini si rivolge al discepolo nella sua condizione sociale di povertà. La figura del povero, dell’affamato, dell’afflitto si fonde con l’immagine del discepolo che viene perseguitato a causa del Figlio dell’uomo.
Gesù si rivolge ai discepoli che rappresentano tutti i credenti in Cristo e offre loro una parola profetica efficace, perché capace di rovesciare la mentalità e il comportamento dell’uomo, di ri-crearlo come persona realizzata nella sua dimensione individuale e sociale. Si realizza l’attesa del Magnificat ma non semplicemente come capovolgimento della situazione politica e sociale (i poveri diventano ricchi e viceversa), ma il rovesciamento avviene nel mondo interiore e nella sfera trascendente. Nella sinagoga di Nazaret Gesù afferma che la profezia di Isaia (61,1-3) appena proclamata si sta realizzando. La beatitudine è dunque innanzitutto annuncio del Vangelo ai «poveri». Per Luca «povero» non è un aggettivo che segnala una qualità o una disposizione spirituale, ma è il nome che definisce una condizione concreta, dal punto di vista fisico e psicologico. Si tratta della situazione precaria e critica del discepolo che vive nel mondo esposto a vessazioni e privazioni «a causa del Figlio dell’uomo». Il «povero» è l’uomo nella miseria, ridotto alla mendicità, incapace di sovvenire da solo ai propri bisogni, e quindi, in balìa altrui, sfruttato, trattato ingiustamente. Il catechista Luca ha in mente la condizione concreta dei cristiani che sono in seria difficoltà, ai quali rivolge un forte incoraggiamento. In tale condizione di povertà i discepoli sono dichiarati felici fin d’ora, non soltanto nel futuro Regno di Dio: non perché la felicità consista nell’essere in quella condizione, ma perché essi sono fatti eredi del Regno di Dio, la cu realizzazione piena segnerà la fine di ogni sofferenza. I poveri sono come quei «piccoli», figli eredi ma che non anno raggiunto quella maturità che permette loro di fruirne in pieno. La beatitudine è il destino del povero che si compie con la morte allorquando entra in possesso del Regno di Dio. La speranza non si porta più soltanto sugli eventi finali che daranno compimento alla storia, ma su ciò che costituisce l’evento decisivo per ognuno: la sua (di Gesù e del discepolo) morte.
Come il povero anche l’affamato è una persona che vive una condizione di sofferenza. La fame non è sinonimo di appetito, quale condizione previa per saziarsi mangiando. L’affamato è colui che non ha il necessario per provvedere da sé ai suoi bisogni. L’affamato è il povero che non dispone del minimo vitale. Il Regno di Dio è il banchetto escatologico, capace di saziare non solo la fame fisica, ma l’uomo nella sua interezza. Esso è pronto per il povero affamato che vive nell’adesso il tempo della prova e della sofferenza.
Il pianto del povero manifesta il suo dolore e lo sconforto. Gesù asciuga le lacrime indicando la meta del suo cammino. Il Regno di Dio è l’esperienza del bambino che, rassicurato dalla presenza materna, vince la paura dell’abbandono e il suo sorriso rivela la gioia serena che ha preso il posto della tristezza e dell’angoscia.
Nell’antichità orientale la funzione del re ideale non sta nel rispetto dello status quo dei suoi sudditi o nel rendere giustizia a ciascuno secondo i suoi meriti, ma nel prendere in mano la situazione di coloro che non hanno la possibilità di farsi giustizia, nell’essere il difensore di coloro che non sanno difendersi e che non vedono riconosciuti i propri diritti dalla società. Parafrasando la beatitudine potremmo dire: «Beati i poveri quando Dio sarà effettivamente Re sulla terra: egli si occuperà di essi». Non siamo davanti alla giustizia retributiva che dà a ciascuno il dovuto, ma di una giustizia di tipo «regale» che sta nel fatto che Dio intende esercitare la sua sovranità in favore dei poveri.
Per Gesù i poveri sono gli anawim ovvero coloro che patiscono una inferiorità sociale (più che essere carenti di beni). Il povero è un uomo «curvo», incapace di difendersi, sfruttato. Nella letteratura sapienziale contemporanea a Gesù la figura del povero viene spiritualizzata per cui diviene sinonimo di umile, pio, mite, che aspetta da Dio la liberazione e si sottomette alla sua Legge. Gli anawim diventano un élite religiosa. Gesù non si rivolge ad un gruppo privilegiato, ai poveri in senso religioso, ma ai poveri in senso reale: affamati, afflitti, emarginati. Luca identifica i discepoli con i poveri. Il vantaggio non sta nella loro pietà, umiltà o nei meriti ma nel fatto che essendo poveri, Dio si prende cura di essi e realizzare la sua regalità a loro favore. L’accento non posto sull’opera umana o sulla sua disposizione interiore ma sull’opera della grazia di Dio in cui esercita la regalità. In questo senso la beatitudine è vangelo perché annuncio di salvezza attuale.
Nella quarta beatitudine la povertà è l’effetto della persecuzione a motivo della fedeltà a Gesù. Luca è molto descrittivo nell’elencare quattro sevizie: l’odio, l’esclusione, l’insulto e la diffamazione. L’odio è l’atteggiamento di chi si oppone a Dio e al suo consacrato (giusto); la separazione o messa al bando è l’«ostracismo sociale» e rottura dei rapporti; l’insulto è la manifestazione del disprezzo contro Israele; la diffamazione è la calunnia per sostenere l’accusa e la conseguente condanna. La persecuzione è motivata dal nome di cristiani, ovvero dalla propria condotta di vita nella quale si rivela la vita di Gesù. La seconda parte della quarta beatitudine è un invito alla gioia, alla danza perché Dio ha riservato per i suoi servi fedeli nella sofferenza la ricompensa custodita nel cielo. È la speranza celeste che si contrappone a quella terrena. È vero che tutti i veri profeti sono stati maltrattati e uccisi, ma solo uno di loro, il profeta per eccellenza, è risuscitato, Gesù Cristo. La risurrezione lo stabilisce come vero profeta di salvezza e di speranza. L’inno di Fil 2 afferma che Gesù, proprio perché è passato attraverso la porta della prova fino alla morte, è stato glorificato ricevendo un nome che è al di sopra di ogni altro nome. La sorte dei credenti è letta nella prospettiva della storia della salvezza che trova la fonte e il culmine nella pasqua di Cristo.
Luca fa seguire alle beatitudini i «guai». Se la beatitudine comunica la partecipazione della gioia, pur nella sofferenza, i guai, invece, esprimono il pianto e la commiserazione per situazioni che portano alla disperazione e alla rovina. Il primo guai sottolinea la incompatibilità tra la ricchezza di beni e i beni eterni. La ricchezza crea in coloro che la posseggono uno stato mentale simile alla droga rendendo lo schiavo dei beni terreni incapace di sperare oltre le umane attese e insensibile ai fratelli. L’ideale che Luca propone non è pauperistico ma un cuore aperto dall’amore al dono, alla condivisione e alla comunione. Il tema della ricchezza è un problema che tocca tutti perché è un pericolo permanente anche dei credenti. All’evangelista non interessano i problemi sociali in quanto tali, ma il cuore dell’uomo e le conseguenze sociali che ne derivano.
I sazi sono gli egoisti che pensano solo al proprio utile e sono incuranti degli altri e dei loro bisogni. Nella loro autosufficienza si fanno beffe dei più deboli.
In ultimo Gesù lamenta la ricerca dell’adulazione e della stima e gloria umana, o il favore degli uomini.
MEDITATIO
La benedizione del misero e la maledizione del miserabile
La liturgia della parola di questa domenica ci richiama alla nostra responsabilità di credenti. Dio si rivela nelle situazioni ordinarie della vita chiedendoci di farne parte e ci stimola a fare delle scelte che siano espressione della nostra adesione alla sua volontà. Riprendendo l’immagine delle due vie offerta dal Libro del Deuteronomio, l’uomo si trova davanti al bivio nel quale c’è la via del bene, che porta alla vita, e quella del male che conduce alla morte. In virtù della scelta compiuta l’uomo si attira la benedizione o la maledizione. Il bene e il male non sono dei principi teorici, realtà disincarnate o concetti astratti ma sono il frutto delle nostre scelte. Le intenzioni buone nascono dal cuore di Dio che ama mentre quelle cattive vengono generate dall’invidia che è propria di Satana. L’amore genera sempre vita mentre l’invidia provoca la morte. Il profeta Geremia presenta un dittico nel quale è indicato da una parte l’uomo maledetto e dall’altro quello benedetto. La differenza tra i due risiede nell’orientamento del proprio cuore. Colui che confida in sé stesso allontana il suo cuore dal Signore per riporre la sua speranza nei beni della terra illudendosi che da essi può ottenere la felicità. Egli ricerca la ricchezza, il potere e la spensieratezza. Si allea con chi gli potrebbe tornare utile per il raggiungimento delle sue ambizioni. Accecato dall’avidità non vede il bene perché lo confonde con il suo interesse e, incapace di amare, si condanna alla solitudine e alla sterilità. Il male è il ripiegamento su sé stessi che porta ad implodere. Al contrario, benedetto è colui che apre il suo cuore a Dio e confida in Lui. La consapevolezza della propria fragilità, insufficienza e infermità suggerisce al «benedetto» di chiedere aiuto a Dio e di lasciarsi prendere cura da Lui. La fede, intesa come fiducia nell’amore di Dio e docilità alla sua volontà, si traduce in opere mediante le quali si contribuisce ad edificare la comunità dei fratelli, figli di un unico Padre.
Credere non significa solo accettare la verità storica che Gesù è morto ed è risorto dai morti ma soprattutto accogliere Colui che è morto per i nostri peccati ed è risorto per dare agli uomini la speranza della vita eterna. Affermare che la vita sia solamente quella biologica e che essa finisca con la morte significa avere speranza in Cristo solo in questa vita, il che è pura stoltezza. È una fede vuota quella che limita il rapporto con Dio entro i confini della vita biologica, che fa dipendere la felicità dalla ricchezza posseduta, dal piacere rincorso e goduto, dalla fama conquistata e dal successo ottenuto a prezzo di compromessi o inganni. Come Gesù, anche Paolo non maledice chi non si apre alla speranza della risurrezione, ma lo commisera perché la vera sciagura è perdere l’occasione di essere amati e salvati da Dio.
Il Vangelo, come ha indicato Gesù a Pietro, è l’invito a prendere il largo sciogliendo gli ormeggi della paura. Il Cristo, primizia dei risorti dai morti, si propone come nostra guida nel cammino della vita per giungere alla salvezza. La ricchezza, l’allegria, la sazietà, la buona fama non sono la salvezza ma solo un segno imperfetto della felicità piena che si raggiunge unicamente insieme al Signore, crocifisso e risorto. Lui non ci abbandona quando soffriamo la povertà ma ci soccorre con la Provvidenza, quando piangiamo per un lutto egli ci sostiene con la consolazione, quando sentiamo i morsi della fame egli non fa mancare il nutrimento. Tutto questo avviene nel contesto di una comunità fraterna e solidale nella quale tutti si lasciano provocare dal Vangelo e assumono come criterio di scelta la carità e non l’utile personale.
Gesù ci indica e ci accompagna nel cammino della gioia ma ci mette in guardia dalle possibili devianze che ci portano fuori strada e lontano dalla meta. Una vita misera è meglio di una vita miserabile perché il povero è il primo destinatario del Vangelo come aveva annunciato Gesù nella sinagoga di Nazaret. Chi, pur nell’indigenza, confida nel Signore, si coinvolge nella comunità fraterna lasciandosi aiutare e mettendosi a servizio degli altri, sperimenta già nel presente la gioia della vita eterna. La felicità non è qualcosa che ci viene data ma è colui che ci chiama verso di sé per incontrarlo e abitare insieme. Chi ci ama non promette successo immediato, non garantisce guadagni abbondanti, non offre soluzioni magiche, ma si fa compagno di strada per sostenerci in ogni situazione della vita e per permetterci di giungere alla casa di Dio, dove Egli ci guida. La scelta tra Dio e gli idoli dipenderà dalla capacità di riconoscere la differenza tra il donare e il vendere, dalla volontà di ricevere e non di comprare l’amore, dall’offrire un servizio senza fissarne il prezzo da pagare ma per far sperimentare la gratuità dell’amore di Dio che agisce in me.
ORATIO
Signore Gesù, Albero della Vita piantato dal Padre in mezzo al mondo, fa che come Te anche io possa radicare la mia fede sulla salda roccia dell’amore fedele di Dio nella gioia e nel dolore, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia. Quando sono preoccupato, perché vengono a mancare le forze per andare avanti donami l’umiltà di chiedere aiuto; quando sono sereno, perché posseggo quanto mi basta per vivere e ho anche il superfluo, aiutami a non cedere alla seduzione dell’avidità. Quando sento nel cuore il vuoto affettivo per la morte di una persona cara aiutami a pregare nella Chiesa e con la Chiesa per avvertire la gioia della comunione dei Santi. Donami, Signore amante della vita, la luce della Speranza che mi raggiunge dalla risurrezione aldilà della morte, che mi permette di vedere il bene oltre l’apparenza della condizione di povertà o di ricchezza, che mi consente di godere la gioia oltre il pianto per un lutto o l’allegria festaiola, che mi fa gustare il sapore della fraternità oltre il dolore della fame o la sensazione di appagamento. Liberami dalla paura affinché non sia schiavo dell’avidità, succube dell’indifferenza, cultore dell’apparenza, egoista difensore dei miei interessi. Accresci in me la fede per aprire a Dio il mio cuore quando i problemi mi serrano la gola, per cercare la tua compagnia quando mi riconosco mancante e bisognoso di amore, per accogliere la tua Pace che colma i vuoti dell’anima. Amen.