Abbracci benedicenti – PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – Lectio divina

Abbracci benedicenti – PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – Lectio divina

29 Gennaio 2025 0 Di Pasquale Giordano

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – Lectio divina
Ml 3,1-4 Sal 23 Eb 2,14-18

Dio onnipotente ed eterno,
guarda i tuoi fedeli riuniti
nella festa della Presentazione al tempio
del tuo unico Figlio fatto uomo,
e concedi anche a noi di essere presentati a te
purificati nello spirito.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Malachìa Ml 3,1-4
Entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate.

Così dice il Signore Dio:
«Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti.
Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai.
Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia.
Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».

Purificazione e santificazione
Nell’ordine dei Dodici profeti minori Malachia è l’ultimo. Il libro dei suoi oracoli chiude anche il canone dell’Antico Testamento. Il profeta stigmatizza con chiarezza l’ipocrisia dei sacerdoti che con il loro atteggiamento credono poter ingannare il Signore. Nei sacrifici trattengono per sé gli animali migliori e offrono quelli difettati, che essi scartano. C’è chi si meraviglia del fatto che nonostante si offrano sacrifici a Dio le cose non vanno bene e si rivolgono a lui quasi in atteggiamento di sfida: «Dov’è il Dio della giustizia?» (Ml 2,17). Il profeta Malachia, che letteralmente significa «messaggero di Dio», è il precursore del Signore della giustizia, «l’angelo dell’alleanza», che entra nel tempio come vero sacerdote e giudice. Egli inaugura il tempo del giudizio, tempo nel quale avviene la separazione tra il bene e il male, tempo di purificazione e di santificazione. Il Signore, sacerdote e giudice, viene per distruggere il male e santificare l’uomo. La santità di chi si lascia purificare da Dio consiste dell’offrire sacrifici a Lui graditi perché esprimono l’amore. I puri di cuore sono coloro che si lasciano purificare da Dio e gli offrono in dono la propria vita; si lasciano amare e contraccambiano l’amore con l’obbedienza. Essa non è più esercitata come una mera esecuzione formale dei precetti, ma diventa un modo di essere davanti a Dio, non più come schiavo, ma come figlio. In quanto tale, il credente, più che il favore di Dio, cerca di piacere al Padre e, solo per questo fine, compie la sua volontà. La volontà di Dio è la nostra santificazione, cioè vivere l’amore fino al suo pieno compimento, fino a dare la propria vita.

Sal 23
Vieni, Signore, nel tuo tempio santo.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso,
il Signore valoroso in battaglia.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.

Dalla lettera agli Ebrei Eb 2,14-18
Doveva rendersi in tutto simile ai fratelli.

Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.
Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.
Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.

Cristo Gesù, sacrificio sull’altare della croce per la salvezza dell’uomo
Dio è diventato uomo perché l’uomo sia erede della vita eterna. Questo progetto si realizza mediante Gesù, il Figlio di Dio. Egli è il Cristo, l’Unto, l’eletto, il Figlio amato che per amore si spoglia della sua divinità per rivestirsi della carne umana, fragile e limitata, soggetta alla sofferenza. L’autore della Lettera agli Ebrei presenta Gesù come il vero e unico Sommo Sacerdote attraverso il quale Dio si rivela e dona il suo perdono una volta per tutte. La misericordia e la fedeltà sono due caratteristiche con le quali Dio desidera essere conosciuto e corrisposto nell’amore. Contrariamente a quello che accadeva nella prassi liturgica ebraica, nella quale il Sommo sacerdote rappresentava l’intero Israele peccatore che implorava il perdono, Gesù Cristo nel sacrificio che fa di sé stesso sull’altare della croce rende presente (oggi e sempre) Dio misericordioso e fedele che libera e salva. I rituali cultuali posti in essere dagli uomini possono ingenerare l’equivoco che il soggetto principale dell’azione salvifica sia l’uomo che offre sacrifici; l’evento della Pasqua capovolge questa visione: è Dio che si offre in sacrificio, perciò, esso è efficace ed è per sempre.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 2,22-40)
I miei occhi hanno visto la tua salvezza.

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».

LECTIO
Contesto
La pericope liturgica è parte del racconto della nascita di Gesù che si sviluppa su un tempo più ampio rispetto a quella del Battista, Infatti, alla scena della nascita di Gesù e della sua circoncisione all’ottavo giorno con l’imposizione del nome, si aggiunge quella della presentazione al tempio. Dopo l’introduzione del motivo del censimento (vv.1-3), il racconto del Natale del Signore va dal v. 4 al v. 39 del capitolo 2. La cornice narrativa, infatti, è data dal viaggio di andata e ritorno compiuto da Giuseppe e Maria. Nazaret è il punto di partenza all’andata e meta finale al ritorno. Gli eventi narrati ruotano attorno al bambino Gesù di cui si racconta la nascita, la circoncisione con l’imposizione del nome e la sua presentazione al tempio. Insieme al figlio, i suoi genitori sono i protagonisti delle tre scene nelle quali svolgono un ruolo attivo. Giuseppe organizza il viaggio verso Betlemme e Maria s’incarica di accudire il bimbo appena nato, che diventa il segno annunciato dagli angeli ai pastori; di lei l’evangelista rivela l’atteggiamento meditativo, ascoltando la testimonianza dei pastori, e le parole profetiche di Simeone che la riguardano. Dei genitori di Gesù si parla in maniera esplicita nella scena che descrive l’incontro con i pastori e quella nella quale si narra il rito della presentazione al tempio, come prescriveva la legge per i primogeniti. Di essi Luca mette in evidenza lo stupore nell’ascoltare ciò che degli estranei affermano del bambino e la loro obbedienza, non solo all’autorità civile, ma soprattutto alla Parola di Dio. Il raffronto tra Gesù e Giovanni appare chiaro nei due sommari che chiudono il racconto delle relative nascite (1,80 e 2,40); di Giovanni si dice: «Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele», mentre di Gesù l’evangelista afferma: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui».

Testo
L’episodio è strutturato in tre parti, ognuna delle quali è caratterizzata da differenti soggetti. All’inizio l’evangelista si sofferma sull’evento del rito della «presentazione» (vv. 22-24), poi entra in scena Simeone, che benedice Dio e i genitori di Gesù e intona un inno (vv. 29-32), a cui si aggiunge anche Anna con la sua testimonianza (vv. 36-38); la pericope si chiude con i vv. 39-40 che segnano anche la conclusione del racconto della nascita di Gesù, iniziato col primo versetto del capitolo due.
L’evangelista introduce l’episodio facendo riferimento al tempo della purificazione. Il libro del Levitico (12, 2-8) prevedeva per la puerpera un tempo di quaranta giorni nei quali era ritualmente impura a causa del sangue del parto: «Se una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà impura per sette giorni; sarà impura come nel tempo delle sue mestruazioni. L’ottavo giorno si circonciderà il prepuzio del bambino. Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione» (vv. 2-4). L’impurità rituale consisteva nell’impossibilità di compiere atti liturgici in pubblico perché era inibita nell’avere contatti fisici con altre persone. Non è prescritto un rituale di purificazione nel tempo dell’impurità ma è indicato l’obbligo di un sacrificio e un’offerta: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio per il peccato. Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge che riguarda la donna, quando partorisce un maschio o una femmina. Se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio per il peccato. Il sacerdote compirà il rito espiatorio per lei ed ella sarà pura» (vv. 6-8). Dunque, la prescrizione, indicata da Luca come Legge di Mosè (v. 22) o del Signore (v. 24), riguarda Maria e il suo stato d’impurità, anche se Luca usa il pronome plurale «loro». Il testo del Levitico parla del sacrificio espiatorio legando il parto al peccato. È evidente che il riferimento al peccato non è all’atto sessuale che ha causato il concepimento, compiuto col parto. Il peccato è piuttosto un’eco a quello della donna in Eden. Come il peccato, disobbedienza a Dio, causa la separazione da lui, con la conseguente perdita della vita, così le perdite di sangue, in cui risiede lo spirito vitale, sono conseguenza del parto, che avviene tra i dolori. Nel racconto della Genesi, all’indomani del peccato della prima coppia, si accenna ai suoi effetti indicandoli per la donna nei dolori del parto e per l’uomo nella fatica con cui lavorare la terra. Il frutto della terra e quello del grembo è ottenuto a prezzo della sofferenza. Non si tratta della maledizione di Dio ma della constatazione che per giungere alla gioia della natività e della raccolta è necessario passare attraverso il travaglio della prova. Il tempo della purificazione è dato per prendere coscienza della sacralità della vita, che porta gioia nella misura in cui è accolta con umiltà dalle mani di Dio come un dono. La purificazione si configura come un processo di conversione e riconciliazione che culmina con il sacrificio rituale mediante il quale si manifesta a Dio la gratitudine e gli si riconosce il fatto di essere la fonte di ogni benedizione. L’essere «piena di grazia», quindi libera dal peccato originale, non toglie nulla del valore che ha il rito liturgico con il quale culminava il tempo della purificazione. Con il sacrificio cultuale terminava il tempo della «separazione» e s’inaugurava quello della «comunione», con Dio e con gli altri. La donna, riconciliata con Dio, non è più solo la madre che dona al figlio la vita mortale ma diventa colei attraverso cui giunge la vita divina attraverso il dono della Parola.
Luca inserisce nel contesto del rito legato alla purificazione (vv. 22a.24) il gesto della «presentazione» di Gesù. Anche se non sono esplicitamente citati, i soggetti sono Maria e Giuseppe, accomunati sia dal sacrificio rituale di purificazione che dal cammino verso Gerusalemme per «presentare» il loro primogenito nel tempio del Signore. Luca giustifica la «presentazione» di Gesù ancora una volta con la prescrizione della «Legge del Signore», intendendo sottolineare la pietà della coppia di Nazaret e la loro obbedienza alla norma. In questo caso il testo di riferimento è Es 13. L’evangelista non cita letteralmente Scrittura ma fa una perifrasi di Es 13,2. Infatti, il testo riporta il comando che il Signore dà a Mosè: «Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me»; Luca sintetizza: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore». Dunque, l’evangelista riporta il comando di Dio con il quale afferma la sua signoria sulla vita. Nel testo di Es 13, 3 Mosè riporta la parola di Dio e la declina in una serie di azioni cultuali che riguardano il rito della Pasqua, memoriale dell’uscita dalla terra di schiavitù e dell’ingresso nella terra promessa. La festa di Pasqua celebra la potenza generativa di Dio che ha sottratto gli Israeliti dal potere della morte per condurli in una terra dove vivere nella libertà. Il tema pasquale del passaggio (da cui viene il termine ebraico pesach) è richiamato per giustificare il rito della «presentazione» che si configura come «consacrazione» o affidamento del primogenito a Dio. Infatti, Es 13, 11-16 dice: «Quando il Signore ti avrà fatto entrare nella terra del Cananeo, come ha giurato a te e ai tuoi padri, e te l’avrà data in possesso, tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del tuo bestiame, se di sesso maschile, lo consacrerai al Signore. Riscatterai ogni primo parto dell’asino mediante un capo di bestiame minuto e, se non lo vorrai riscattare, gli spaccherai la nuca. Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i tuoi discendenti. Quando tuo figlio un domani ti chiederà: “Che significa ciò?”, tu gli risponderai: “Con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione servile. Poiché il faraone si ostinava a non lasciarci partire, il Signore ha ucciso ogni primogenito nella terra d’Egitto: i primogeniti degli uomini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo parto di sesso maschile e riscatto ogni primogenito dei miei discendenti”. Questo sarà un segno sulla tua mano, sarà un pendaglio fra i tuoi occhi, poiché con la potenza del suo braccio il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto». Dunque, secondo il comando di Dio il primogenito di una famiglia è il segno memoriale di ciò che accadde in terra di Egitto quando il Signore affermò la sua signoria sulla vita con effetti diversi tra coloro che la rifiutano e disobbediscono e quelli che la riconoscono e obbediscono alla sua parola. Il faraone, e con lui gli egiziani, rappresenta il peccatore che si oppone a Dio pretendendo di occupare il suo posto; al contrario, Mosè, e con lui gli Israeliti che lo seguono, rappresenta quelli che si salvano per la loro fede e obbedienza. Infatti, i primogeniti degli egiziani non reggono alla visita di Dio, rappresentata dal passaggio dell’angelo, e muoiono, mentre i primogeniti degli Israeliti vengono risparmiati al passaggio dell’angelo della giustizia. La diversa sorte dei primogeniti è segno profetico del destino riservato agli Egiziani e agli Israeliti: i primi, seguendo gli ordini del faraone, periscono nel mare, mentre i secondi, obbedienti alla parola di Dio e ai comandi di Mosè, attraversano il mare all’asciutto e hanno salva la vita. La «presentazione» è un gesto liturgico di consacrazione con la quale si afferma che ogni vita, non solo quella dei primogeniti, è sacra perché appartiene a Dio. Il verbo «riservare» è un sinonimo di consacrare ma con la particolarità che «il mettere da parte» è finalizzata alla missione. In altri termini, la consacrazione non è un sacrificio con quale l’uomo si priva di qualcosa per offrirla a Dio, ma è un atto col quale si riconosce che il consacrato è «riservato» per una missione a vantaggio di tutto il popolo. L’azione salvifica di Dio continua attraverso la missione di chi è «scelto» o «riservato» tra i fratelli per essere a servizio della salvezza del popolo.
Nell’accenno alla «presentazione» si riconosce l’eco della vicenda di Samuele che, una volta svezzato, viene offerto a Dio nel tempio da sua madre Anna. Dando il nome Samuele al suo primogenito, spiega che, come lei l’ha ricevuto da Dio perché a Lui richiesto nella preghiera, cosi ella lo introduce nel tempio e lo affida al Signore perché da Lui è richiesto. Come Anna, anche Giuseppe e Maria, presentando Gesù al tempio, da una parte comunicano la loro fede in Dio e l’obbedienza al suo comando, dall’altra compiono un gesto profetico che anticipa il significato del nome dato al momento della circoncisione. Infatti, Gesù non è solo un nuovo Mosè o Samuele, giudice/profeta che con la sua parola sapiente guida e governa il popolo, ma è l’Unigenito Figlio di Dio che ha la missione di essere il Salvatore, colui che riscatta il popolo dal dominio del peccato per introdurlo nella comunione con Dio. La purificazione, consacrazione e il riscatto non sono più mediati da gesti rituali ma sono realizzati definitivamente con l’offerta che Gesù farà di sé sulla croce per la salvezza di tutti gli uomini. In sintesi, il rituale della presentazione al tempio è un segno profetico dell’evento della Pasqua di Gesù Cristo che fa di lui il primogenito di una nuova creazione.
La seconda scena (vv. 25-35) si apre con l’ambientazione che riprende il tema di Gerusalemme ed esplicita quello del tempio nel quale avviene l’incontro tra Simeone e il Bambino Gesù con i suoi genitori. Luca si sofferma molto nella caratterizzazione del personaggio del quale sottolinea il suo rapporto con lo Spirito Santo, che sembra essere il vero regista della vicenda. Simeone è un vero Israelita, «giusto e pio». Come le due coppie di sposi, Zaccaria ed Elisabetta insieme a Giuseppe e Maria, anche Simeone è un uomo che «cammina nella legge del Signore… e lo cerca con tutto il cuore» (Sal 118,1.2). L’uso dell’imperfetto del verbo essere riferito allo Spirito Santo indica la sua presenza stabile e continua su Simeone, tale che egli è costituito profeta nel suo essere, prima ancora che nel suo dire. L’identità profetica è sottolineata anche nella parola che lo stesso Spirito rivela a Simeone: l’avvento del Messia del Signore, che sarebbe accaduto nel tempo a lui presente. Come gli angeli ai pastori, così lo Spirito Santo è portatore dell’annuncio evangelico: la gloria di Dio si è resa visibile nel suo «Cristo» (unto di Spirito, consacrato). La condotta morale di Simeone è ben rappresentata e sintetizzata nel suo pellegrinaggio al tempio, entrambi mossi e guidati dallo Spirito Santo. È nel tempio che si incrociano i cammini dei giusti, pellegrini di speranza, docili alla voce dello Spirito e obbedienti alla Parola. Simeone accoglie il bambino Gesù tra le sue braccia, come un sacerdote riceve le offerte del popolo per presentarle al Signore. Seguendo un rituale sacerdotale, Simeone benedice Dio riconoscendo in lui l’autore e la fonte di ogni bene. La benedizione è quella dell’uomo giusto, di cui parla il Sal 118,7: «Ti loderò con cuore sincero, quando avrò appreso i tuoi giusti giudizi». La benedizione di Simeone loda il Signore perché vede realizzata la promessa di consolazione, ovvero la speranza per la liberazione della nazione. Gli occhi di Simeone, come quelli dei pastori, vedono un bambino; la loro vista non si ferma al fenomeno ma lo Spirito Santo, mediante la parola, permette di vedere in maniera più profonda. Simeone contempla nel «qui e ora» l’opera di Dio che conduce sulla via della pace il suo servo. Egli non parla solo a nome suo ma degli Israeliti e di tutti gli uomini verso i quali Dio si manifesta come salvezza, luce e gloria. Nel bambino Gesù è riassunta la vocazione alla santità offerta a tutti gli uomini ed è enunciata la speranza dell’uomo che facendosi servo di Dio cammina sulla via dell’obbedienza e della fedeltà per condividere la pienezza della gioia del suo Signore. Le genti non sono più i popoli stranieri da cui prendere le distanze, per non farsi contaminare dai loro culti idolatrici, ma sono riconosciuti fratelli con i quali condividere il cammino di fede e il servizio all’unico vero Dio per partecipare insieme al banchetto finale che il Signore ha preparato per tutti gli uomini. La morte non fa più paura a Simeone perché essa è stata svuotata di ogni potere, sconfitta e trasformata in passaggio verso la pace vera, la vita in Dio.
I genitori di Gesù rimangono stupiti davanti alla rivelazione di Simeone riguardante il loro figlio. Le parole del profeta si aggiungono a quelle di Gabriele a Maria e dei pastori, giunti a Betlemme su indicazione dell’angelo. Tutto fa pensare ad un cammino trionfale nel quale Dio, attraverso Gesù, manifesta la sua potenza e sottomette tutti i popoli alla sua Signoria. La meraviglia si accompagna alla domanda che è posta sin dall’inizio sulle labbra di Maria: «come avverrà questo?» (1,34). A questo interrogativo risponde Simeone che, ispirato, continua a profetizzare. Lo fa benedicendo il padre e la madre di Gesù, ossia riconoscendo nella loro genitorialità, come aveva fatto Elisabetta con Maria (1,41-42), l’opera dello Spirito Santo, in linea con quanto le aveva rivelato l’angelo Gabriele.
Anche Simeone si rivolge esplicitamente a Maria la quale, come madre di Gesù, mantiene un legame singolare con lui. Ella, per mezzo della quale Gesù riceve non solo la vita biologica ma anche la Parola, rappresenta Israele, sia come madre che genera alla fede i suoi figli, sia come discepola che si mette alla sequela del Messia e partecipa alla sua opera di salvezza. Le parole di Simeone sono rivelative dell’evento pasquale che dà vero compimento al tempo della purificazione. Il travaglio del parto continua per Maria nella partecipazione, insieme con Gesù e a tutto Israele, al cammino pasquale di caduta nella morte e di risurrezione dalla morte. La via della pace e della riconciliazione che Gesù inaugura passa attraverso il mistero del dolore causato dalle resistenze opposte alla parola di Dio e alla sua realizzazione. Il segno di contraddizione, insieme al simbolo della spada, richiama il giudizio del re. Illuminante è la vicenda di Salomone (1Re 3,16-28) chiamato a giudicare chi fosse la vera madre del bambino che due donne si contendevano; prende una spada dichiarando di risolvere la questione dividendo in due parti il bambino per darne a ciascuno una parte uguale all’altra. La spada è segno di quella giustizia distributiva che assicura a ciascuno quello che si merita. Accade però che, davanti alla spada che sta per uccidere il figlio, la madre vera, «poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio» (1Re 3,26), interviene rinunciando al suo diritto pur di far vivere il bambino. La spada, simbolo della morte, attraversa l’anima della madre attivando un dinamismo di misericordia. La donna agisce perché mossa da compassione. Le parole della vera madre e quella della falsa rivelano le intenzioni del loro cuore: misericordia da una parte e avidità dall’altra. Simeone profetizza che il mistero della giustizia e della salvezza s’intreccerà con quello del male e dell’ingiustizia; il cammino pasquale di Gesù, il Messia del Signore, attraverserà momenti di crisi che coinvolgerà molti, in particolare i suoi discepoli. La scena della crocifissione aiuta a comprendere le parole di Simeone. Gesù viene crocifisso tra due malfattori, uno si associa al coro di chi lo provoca a salvare sé stesso per salvare anche gli altri e mostrare che è veramente il figlio di Dio, l’altro invece, riconoscendo la sua colpa e l’innocenza del crocifisso gli chiede di intercedere per lui per entrare nel regno di Dio.

MEDITATIO
Abbracci benedicenti
Il vangelo di Luca racconta alcuni aneddoti significativi dell’infanzia di Gesù che sono rivelativi della sua identità messianica. Il bambino, in quanto maschio primogenito della giovane coppia di sposi, «è sacro al Signore», come afferma la legge del Signore. Il gesto liturgico che Giuseppe e Maria si apprestano a fare nel tempio di Gerusalemme vuole riconoscere, attraverso la presentazione del bambino e il sacrificio di una coppia di tortore o due giovani colombi, che il loro primo figlio maschio è figlio di Dio. Agli occhi dei coniugi di Nazaret il bambino Gesù è il dono attraverso il quale Dio si mostra loro come Padre. Il figlio è il segno visibile con cui Dio si fa presente nella famiglia umana. Gesù, figlio di Maria e Giuseppe e figlio di Dio, è il punto in cui s’incontrano il cielo e la terra e avviene lo scambio dei doni: Dio dona suo Figlio agli uomini e i genitori donano il loro figlio a Dio.
Quel rito è un atto di fede come quello che Abramo compì sul monte Moria quando offrì in sacrificio suo figlio Isacco. Anche in quel caso il Patriarca obbedì alla legge del Signore interpretando alla lettera e nella maniera più esigente la sua parola: «fai salire per il sacrificio tuo figlio, l’unico, quello che ami» (Gn 22). Con quel gesto Abramo sulla vetta del monte raggiunge il punto più alto della sua fede. Lì il suo cuore diventa trasparenza dell’amore Dio che per gli uomini sacrifica Suo Figlio, l’Unico, l’Amato. Nell’offerta del figlio Isacco, Abramo diventa profeta del dono di amore che Dio offre nel sacrificio di Gesù sulla croce.
Il filo rosso dell’amore di Dio lega gli eventi della salvezza che vanno dalla Genesi all’Apocalisse. Nell’offerta che Gesù fa di sé al Padre per la salvezza degli uomini si scorge un abbraccio, ovvero l’incontro tra braccia. Ci sono le braccia di Maria e Giuseppe, come quelle di Abramo, che innalzano verso l’altare il loro figlio Gesù. Esse sono profezia delle braccia della croce, segno di quelle di Dio Padre, dalle quali è presentato e offerto al mondo il Cristo, il Figlio di Dio.
Lo Spirito Santo fa «sentire» a Simeone la stessa gioia di Dio quando ci accoglie tra le sue braccia misericordiose. È l’abbraccio benedicente di Dio! Quando l’uomo benedice Dio accoglie la sua benedizione e diventa lo strumento della sua diffusione.
Nell’eucaristia si rinnova questo abbraccio in cui si incrociano le mani e s’incontrano i cuori, nostri e di Dio. Nel pane e nel vino posti sull’altare presentiamo a Dio tutta la nostra vita, le gioie e le fatiche di tutti i giorni. La offriamo a Dio con gratitudine e fiducia perché lo Spirito Santo, unendoci al sacrificio di Cristo, faccia della nostra vita un dono d’amore.
L’eucaristia ci educa ad abbracciare la nostra croce quotidiana e in essa a lasciarci abbracciare da Dio. Come quelle della croce, anche le braccia del Padre sono sempre aperte ad accogliere la nostra preghiera fatta con forti grida e lacrime e prodighe nell’offrire consolazione. Così le nostre braccia, come quelle di Maria e Giuseppe e dello stesso Gesù sulla croce, seppure indebolite dal peso delle prove, s’innalzino per offrire la preghiera a Dio di lode e di supplica. Anche il nostro abbraccio sia tenero come quello di Simeone e benedicente come quello del Padre.

Preghiamo

Benedetto sei Tu Signore Gesù, perché dalla tua mano riceviamo ogni giorno la vita, con gioie e fatiche. Accetta l’offerta della lode e della supplica che deponiamo sull’altare del cuore innalzato verso di Te. Non ho altro da offrirti se non la mia povera umanità, quella che Tu stesso hai assunto facendoti uomo come me. Abbracciami, come un padre fa col proprio figlio e benedicimi con il dono del Tuo Spirito. La tua misericordia spalanchi le mie braccia perché possano consolare chiunque si trova nell’afflizione ed essere rifugio per chi si è smarrito.
 
Signore Gesù, sei nato e cresciuto in una famiglia in cui la Parola di Dio era pane quotidiano e luce di consolazione; da Maria e Giuseppe hai imparato a conoscere il Padre con la mente di un figlio dell’uomo, per mezzo loro hai appreso come riconoscere i segni della sua presenza, a discernere i sentimenti, il linguaggio della fede, la prassi della misericordia; con loro hai mosso i primi passi sulla via dei comandamenti e hai maturato la vocazione al servizio gratuito per il bene dei tuoi fratelli. Aiutami ad essere pellegrino di speranza che avanza nel cammino della vita, rialzandosi dopo ogni caduta e battuta di arresto, animato dal desiderio di rendere sempre più pura la fede e più sincera la carità.
 
Signore Gesù, accolto tra le braccia di Simeone e da lui riconosciuto dono perfetto di Dio, fa che, attraverso i nostri occhi, possa giungere nel cuore la luce dello Spirito; il Paràclito trasformi le piccole e meschine aspettative umane, che creano barriere difensive e alimentano illusorie competizioni, in sogni profumati di speranza, in progetti di pace, in parole e gesti che uniscono tutti in un unico abbraccio fraterno. Che possa riconoscerti presente nel dolore della mia croce, come il buon ladrone, e avere l’umiltà di pregarti dal profondo della mia miseria perché tu, liberandomi dai vincoli del giudizio e dei sensi di colpa, mi introduca nella gioia del tuo regno e mi renda partecipe del tuo potere di amore che tutto sana e ricrea.
Amen.