COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI
Cielo e terra uniti nella preghiera d’intercessione e di suffragio – (Messa I)
Gb 19,1.23-27 Sal 26 Rm 5,5-11
Nella tua bontà, o Padre,
ascolta le preghiere che ti rivolgiamo,
perché cresca la nostra fede nel Figlio tuo risorto dai morti
e si rafforzi la speranza che i tuoi fedeli
risorgeranno a vita nuova.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro di Giobbe Gb 19,1.23-27
Io lo so che il mio redentore è vivo.
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
La visione di Dio
Giobbe, uomo giusto e timorato di Dio, subisce molte prove sotto le quali rimane saldo nella fede. Eppure, essa appare più come una accettazione rassegnata degli eventi nei quali si manifesta una forza divina superiore alle sue capacità umane. Nonostante le sue opere giuste egli non scampa dai colpi inferti dalla sventura. Essi non intaccano solo il suo patrimonio ma il suo corpo e la sua identità. Ci sono domande drammatiche sepolte sotto la coltre di una giustizia fondamentalmente basata sulle proprie forze. Esse, come il magma di un vulcano che improvvisamente si sveglia, escono da un cuore che viene ferito dalle affermazioni teologiche dei suoi amici che lo invitano a riconoscere in sé stesso la colpa che lo ha condannato alla sofferenza mortale. Il dialogo teologico si trasforma in disputa che dal piano umano si sposta a quello divino. Giobbe passa da uno stato di passiva quiescenza ad una battaglia per difendere la sua rettitudine morale, fino a giungere a ingaggiare una lite con Dio chiamato in giudizio perché gli dia conto del suo comportamento nei suoi confronti. Giobbe cerca la giustizia secondo i suoi criteri. Dio lo educa a cercare la verità per scoprire che c’è un progetto di amore molto più grande delle aspettative mondane calibrate sulle capacità umane. La gloria mondana, prodotta dalle opere degli uomini, è fugace e provvisoria, mentre quella di Dio è solida ed eterna perché fondata sul suo ineffabile e fedele amore. La fede di Giobbe, un tempo basata sulle sue opere di giustizia, diventa umile obbedienza della Parola di Dio che gradualmente introduce nel grande mistero del suo amore. La vita non appare più come un enigma ma come un luminoso mistero, un progetto di vita, un cammino verso la pienezza della vita, la Casa di Dio, che attraversa la strada aperta in mezzo macerie delle false speranze e delle ingannevoli illusioni. Il cammino della santità comporta un graduale svuotamento del proprio io, l’impoverimento dell’avidità e il depotenziamento dell’orgoglio con la sua carica di aggressività affinché dall’io mortificato possa nascere il noi della vera fede e dell’amore che spinge a donarsi e perdonarsi gli uni gli altri. Credere in Dio vuole dire vivere in Lui e far vivere Lui in noi.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 6,37-40
Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Cielo e terra uniti nella preghiera d’intercessione e di suffragio
Nella festa di Ogni Santi ci siamo uniti al coro degli angeli e dei santi per lodare e ringraziare Dio insieme a loro. Nella preghiera facciamo festa perché ringraziamo il Signore, gli chiediamo perdono per i nostri peccati e supplichiamo il suo aiuto. A tutti i Santi abbiamo chiesto d’intercedere per noi affinché la sovrabbondanza di amore, che scorre come fiumi nel cielo, possa raggiungere noi pellegrini sulla terra permettendoci di ravvivare nel cuore il dono della fede e riflettere sul nostro volto per gli altri la luce dell’amore di Dio. Oggi la preghiera assume un aspetto più mesto, ma non meno intenso e pregno di speranza. Insieme a tutti i defunti facciamo comune memoria della promessa di Gesù di farci risorgere nell’ultimo giorno. Esso non è il giorno che segna il termine della nostra vita, ma quello che inaugura il fine della nostra esistenza e il compimento del nostro cammino. Infatti, non siamo nati per morire ma per vivere da risorti come Gesù Cristo e insieme a Lui. La preghiera, in particolare l’eucaristia, è il memoriale del passaggio dalla morte alla vita di Gesù a cui Egli associa tutti coloro che credendo si uniscono al Lui. La commemorazione non è dunque un semplice ricordo dei nostri defunti, ma un’occasione d’incontro con loro in Gesù e fare comunione. Egli, infatti, è il ponte che permette la comunicazione d’amore tra il cielo e la terra, tra l’aldilà e l’aldiquà. La preghiera di suffragio è ringraziamento per il dono dei nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nella Casa del Padre, è invocazione umile e corale della misericordia che riconcilia i peccatori e risana le ferite delle umane debolezze, ed è richiesta di aiuto affinché la Luce eterna possa splendere come consolazione per i defunti e per noi, pellegrini sulla terra, come segno di speranza.
ORATIO
Signore Gesù, Luce da Luce, guidaci come la colonna di fuoco che precedeva il popolo d’Israele mentre usciva tra le tenebre della notte dalla terra di schiavitù per entrare a servizio del Dio vivente. La tua morte e risurrezione illumini di speranza il nostro cammino sulla terra affinché possiamo vivere tappa dopo tappa il nostro pellegrinaggio quotidiano come l’itinerario di fede che conduce a vedere il volto di Dio faccia a faccia e saziarci al banchetto del Cielo preparato per noi fin dalla fondazione del mondo. Aiutaci a non perderti di vista accecati dell’avidità e dell’orgoglio ma illumina con il tuo Spirito gli occhi del cuore affinché, sentendo compassione per i nostri fratelli, rimaniamo in comunione con loro sostenendoli con l’aiuto materiale della condivisione e con quello spirituale della preghiera di suffragio.
Viventi e redenti per essere nella gioia – (Messa II)
Is 25,6.7-9 Sal 24 Rm 8,14-23
O Dio, gloria dei credenti e vita dei giusti,
che ci hai salvati con la morte
e la risurrezione del tuo Figlio,
sii misericordioso con i tuoi fedeli defunti;
a loro, che hanno creduto nel mistero
della nostra risurrezione,
dona la gioia della beatitudine eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Isaìa Is 25,6.7-9
Il Signore eliminerà la morte per sempre.
In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto,
l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».
La festa finale
L’oracolo del profeta Isaia annuncia il vangelo ad un popolo che vive il dramma della crisi di fede ed avvolto dal velo del lutto perché avverte l’assenza di Dio e si sente da Lui condannato e abbandonato. Dio risponde al grido di dolore di un popolo che é stato anche abbandonato a sé stesso dai suoi responsabili il cui peccato d’indifferenza e di avidità lo ha condannato alla schiavitù della diffidenza e della paura. Per questo il popolo geme e grida aspettando la redenzione. Dio risponde a questo anelito di libertà che consiste non solo nell’uscire da ambienti che ci stanno stretti ma nell’essere liberati interiormente dal peccato della disperazione. Dio, infatti, più che rompere le catene esterne, strappa dal volto dell’uomo il velo che rende ciechi, sradica la radice del male dal cuore affinché da esso non escano progetti di vendetta ma fioriscano le intenzioni buone. Dio fa uscire dalle tombe dei cuori diventati sepolcri belli fuori ma pieni di corruzione dentro per introdurre i suoi servi liberi nella sala della festa. Essa é la comunità fatta di fratelli e sorelle che si riuniscono alla mensa per nutrirsi insieme del cibo della Parola e aiutarsi reciprocamente nell’utile e generoso servizio della carità. Il cibo che il Signore prepara non sazia i desideri mondani ma ci riempie il cuore dello Spirito Santo che ci fa nuove creature.
Salmo responsoriale Sal 24
Chi spera in te, Signore, non resta deluso.
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Allarga il mio cuore angosciato,
liberami dagli affanni.
Vedi la mia povertà e la mia fatica
e perdona tutti i miei peccati.
Proteggimi, portami in salvo;
che io non resti deluso,
perché in te mi sono rifugiato.
Mi proteggano integrità e rettitudine,
perché in te ho sperato.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 8,14-23
Aspettiamo la redenzione del nostro corpo.
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
La preghiera dei figli liberi e la speranza della creazione
«Non si possono servire due padroni contemporaneamente» (cf. Lc 16,13), ricorda Gesù. Gli fa eco Paolo, il quale afferma che Cristo Gesù col suo sacrificio sulla croce ci ha riscattato dal peccato e ci ha resi liberi. Questa condizione non ci rende debitori verso le nostre forze ma riconoscenti nei confronti di Dio che, donando agli uomini Suo Figlio ci ha resi in Lui Figli. Attraverso di Gesù abbiamo ricevuto lo Spirito Santo che ci fa rivolgere a Dio chiamandolo Padre. Non dobbiamo avere paura di Dio ma, al contrario, fidarci di Lui, amarlo e desiderare sempre di più corrispondere al suo amore. Il desiderio iscritto nella nostra carne è quello dell’io possessivo che brama di avere e controllare. Invece, il desiderio di Dio consiste nell’amare e dare la vita. L’amore possessivo distrugge le relazioni e porta alla morte, mentre quello oblativo, che sgorga dal cuore di Dio ed è riversato nel nostro, genera continuamente alla vita. La preghiera dei figli è diversa dalla supplica degli schiavi. I primi lodano il Signore e si rendono disponibili all’obbedienza gioiosa e generosa, e invocano il dono della pace. I secondi invece chiedono di essere lasciati stare in pace e obbediscono perché si sentono costretti e minacciati. La preghiera dei figli non è una richiesta rivendicativa ma innanzitutto un’invocazione al Padre fatta con fiducia e gratitudine, e dunque, un appello di salvezza a Lui rivolto con umiltà e speranza. La preghiera è già un’esperienza di comunione trinitaria perché grazie allo Spirito Santo siamo inseriti nella relazione d’amore che unisce il Padre al Figlio.
San Paolo nella lettera ai Romani parla di tutta la creazione che, pur essendo caratterizzata dalla fragilità e dalla sofferenza, attraversa i dolori del tempo presente, come le doglie di un parto, sostenuta dalla speranza e guidata dal desiderio di rinascere come figli di Dio. L’oggi storico segnato dal dolore e dalla fatica guarda al futuro compimento che non è una illusione che ci porta fuori dalla storia, ma è una ferma certezza che ci fa pregustare già nel presente le primizie della gioia. La comunione fraterna, che trasfigura la comunità terrena degli uomini, è anticipazione già oggi della beatitudine celeste.
Dal Vangelo secondo Matteo Mt 25,31-46
Venite benedetti del Padre mio.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
La Carità è il fine di ogni vita
Leggendo la parabola del giudizio universale la mente corre subito al grande affresco di Michelangelo della Cappella Sistina. Campeggia in posizione centrale il Cristo Re nell’atto di richiamare l’attenzione e creare il grande silenzio per emettere la sentenza e fare verità. Nella parabola abbiamo prima una separazione per distinguere i protagonisti in due gruppi e poi un duplice atteggiamento, il primo di accoglienza, il secondo di respingimento. Entrambi i gruppi sono identificati con due tipologie di ovini che erano impiegati nei sacrifici al tempio e nei riti. Questa immagine suggerisce il fatto che siamo nel campo della religiosità. Tuttavia, la distinzione è finalizzata a rivelare il modo con cui si vive la propria fede. Infatti, si può fare una scelta religiosa reale o solo ideale. I benedetti sono tali perché nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel nudo, nel malato, nel carcerato non colgono tanto un problema da risolvere, ma innanzitutto una persona concreta da aiutare facendosi prossimo, condividendo il suo dolore e infondendo speranza; perciò essi, senza saperlo incontrano Cristo, lo toccano nelle sue membra doloranti, lo ascoltano guardandolo negli occhi, lo accolgono facendolo sentire a casa, lo vestono ridonandogli dignità, lo curano accompagnandolo nel dolore, lo visitano per confortarlo e dargli speranza. I maledetti sono quelli che vedono nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel nudo, nel malato, nel carcerato innanzitutto un fenomeno da analizzare. Si fanno convegni, approfondimenti, studi, progetti per combattere la fame, per rendere pubblica l’acqua, per gestire l’immigrazione, per stroncare lo sfruttamento … ma senza toccare la carne di Cristo, senza sentire il morso della fame e l’arsura della sete, la tristezza dello straniero e l’umiliazione del nudo, la sofferenza del malato e frustrazione del carcerato. In definitiva senza un contatto reale con l’umanità non c’è incontro con Cristo e l’impegno sociale millantato è solo un misero tentativo di amore a sé stessi e per sé stessi che relega il rapporto con Gesù nell’elenco dei doveri da compiere o nei pii desideri da realizzare avendo tempo. Colui che entra in sintonia col suo fratello e percorre con lui la via della croce alla fine scopre che ha condiviso la vita con Cristo.
ORATIO
Signore Gesù, giudice mite e misericordioso, Tu che ti fai fratello dei più piccoli donaci la virtù della compassione per non essere indifferenti al bisogno del povero, del malato, del forestiero o del carcerato. Fa che possiamo fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi nella necessità ma ancor di più, che riusciamo a condividere con i fratelli l’Amore che Tu hai riversato nei nostri cuori morendo sulla croce per perdonare i nostri peccati. La tua benedizione ci renda più umani perché attraverso i gesti profumati di umiltà e le parole dal sapore della fraternità possiamo saziare di amicizia chi ha fame e sete di amore, curare le ferite del corpo e dell’anima di chi è traumatizzato dagli eventi della vita, dare una casa a chi ha perso la radice della propria famiglia, offrire una possibilità di riscatto a chi è rimasto vittima della sua colpa.
Abitare la Casa di Dio e diventare Casa dove Dio abita – (Messa III)
Sap 3,1-9 Sal 41 Ap 21,1-5.6-7
O Dio, che hai fatto passare alla gloria del cielo
il tuo Figlio unigenito, vincitore della morte,
concedi ai tuoi fedeli defunti che, vinta la condizione mortale,
possano contemplarti in eterno creatore e redentore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro della Sapienza Sap 3,1-9
Il Signore li ha graditi come l’offerta di un olocausto.
Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio,
nessun tormento li toccherà.
Agli occhi degli stolti parve che morissero,
la loro fine fu ritenuta una sciagura,
la loro partenza da noi una rovina,
ma essi sono nella pace.
Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi,
la loro speranza resta piena d’immortalità.
In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici,
perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé;
li ha saggiati come oro nel crogiolo
e li ha graditi come l’offerta di un olocausto.
Nel giorno del loro giudizio risplenderanno,
come scintille nella stoppia correranno qua e là.
Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli
e il Signore regnerà per sempre su di loro.
Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità,
i fedeli nell’amore rimarranno presso di lui,
perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti.
Il destino dei giusti: abitare il cuore di Dio
La prima parte del libro della Sapienza (cc. 1-5) si incentra sulle figure del giusto e dell’empio, che apparentemente conducono la stessa esistenza. Ma, mentre il giusto segue le indicazioni della sapienza, l’empio persegue un suo progetto che mira al successo e alla ricchezza. La morte e il giudizio di Dio sveleranno il destino di entrambi, spesso nascosto dalle vicende umane: il giusto è destinato alla felicità, l’empio al castigo.
L’autore sacro è il sapiente che guarda con gli occhi della fede, si identifica con i giusti, dei quali condivide la speranza dell’immortalità, e prende le distanze dagli stolti che invece leggono i dolori che la vita riserva come una condanna. L’idea dell’immortalità dell’anima è comune ai greci. Il sapiente d’Israele specifica che l’immortalità è la condizione di vita in unione con Dio. La morte non è l’ultima parola dell’esistenza il cui fine non è saziarsi di beni materiali e abitare spazi del mondo; la vita è un dono che si riceve dalle mani di Dio affinché l’uomo possa liberamente confidare in Lui trovando sicurezza. Nelle prove della vita il saggio e giusto non confida nelle sue forze, come fa lo stolto, ma cerca la volontà di Dio e persevera nella carità. In questo modo, condividendo con compassione il dolore degli altri, si rende fratello e sorella di tutti.
La speranza è più del semplice desiderio; questo, infatti, è eco della voce del proprio io, mentre quella è la risonanza della Parola di Dio che chiama alla gioia senza fine.
Salmo responsoriale Sal 41
L’anima mia ha sete del Dio vivente.
Come la cerva anela
ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela
a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio,
del Dio vivente:
quando verrò e vedrò
il volto di Dio?
Avanzavo tra la folla,
la precedevo fino alla casa di Dio,
fra canti di gioia e di lode
di una moltitudine in festa.
Manda la tua luce e la tua verità:
siano esse a guidarmi,
mi conducano alla tua santa montagna,
alla tua dimora.
Verrò all’altare di Dio,
a Dio, mia gioiosa esultanza.
A te canterò sulla cetra,
Dio, Dio mio.
Perché ti rattristi, anima mia,
perché ti agiti in me?
Spera in Dio: ancora potrò lodarlo,
lui, salvezza del mio volto e mio Dio.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo Ap 21,1-5.6-7
Non vi sarà più la morte.
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse:
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose.
Io sono l’Alfa e l’Omèga,
il Principio e la Fine.
A colui che ha sete
io darò gratuitamente da bere
alla fonte dell’acqua della vita.
Chi sarà vincitore erediterà questi beni;
io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio».
La nuova creazione in cui regna la pace
Il Libro dell’Apocalisse è il libro profetico del Nuovo Testamento che offre alla chiesa delle origini, ferita dalle persecuzioni, una chiave di lettura della propria vita di fede alla luce del mistero della morte e risurrezione di Gesù. Il Crocifisso Risorto consegna a Giovanni la rivelazione. Lo Sposo chiama la Sposa che attende il suo arrivo per entrare nell’intimità della Casa. La metafora nuziale percorre tutta l’opera giovannea, dal vangelo all’Apocalisse. Essa aiuta a comprendere che Dio si rivela come lo Sposo che ama la sua Sposa e si dona a lei per salvarla dalla maledizione della sterilità e renderla feconda di figli e figlie. Tutta la creazione partecipa e gode dell’azione salvifica di Dio che ha una portata universale. Questo brano segue immediatamente quello in cui è descritto il giudizio finale. La morte e l’inferno è vinta. Anche coloro che facendo il male, si sono schierati dalla parte della morte, vengono gettati nel lago di fuoco, cioè la seconda morte. Dopo questo scenario di distruzione compare un cielo nuovo e una terra nuova. Vi è una nuova creazione. Tutto è stato ripreso in mano da Dio e ricreato, senza peccato, senza ribellione verso di Lui. Infatti, il mare non c’era più. Nella concezione semitica il mare, profondo e misterioso, spesso caotico e abitato da animali enormi e spaventosi, è il simbolo del male. In questa nuova creazione scende la “nuova Gerusalemme”, simbolo della comunione del popolo con il suo Dio. La città santa viene da Dio, in essa appare ora in tutta la sua estensione la potenza e la grazia di Dio. E’ abbigliata come una sposa, il suo è un amore manifesto. Una voce fuori campo spiega l’immagine: ecco la tenda! Un tempo il Signore abitava nella Tenda e poi nel Tempio, poi nei tabernacoli della Nuova Alleanza. Quei simboli trovano ora il suo compimento: la Città santa è l’abitazione di Dio. Dio è presente direttamente in tutto, Dio e l’umanità si appartengono completamente, è un vincolo matrimoniale. Tutti i popoli finalmente sono entrati in comunione con Dio. Dio asciugherà ogni lacrima, non consola alla leggera, non esorta a dimenticare bensì trasfigura le ferite. Tutto ciò che è passeggero, terrestre, doloroso è stato trasformato nella nuova creazione. la parola passa a Dio. Egli è l’onnipotenza, fa nuove tutte le cose. Realizza pienamente tutto ciò che era iniziato con la redenzione di Cristo ed è stato realizzato all’interno della storia della salvezza. Dio è l’alfa e l’omega, cioè l’inizio e la fine dell’alfabeto greco. Tutto ha inizio e fine in Lui. Ormai l’opera della salvezza è compiuta. Questo compimento è un dono dal contenuto inesprimibile: dona l’acqua della vita, però è necessario che vi sia la sete, il desiderio di quest’acqua, il desiderio dell’eterno, della comunione con Dio. Il vincitore è colui che ha perseverato nel momento delle prove, nell’attesa del compimento delle promesse di Dio. Grazie alla sua fiducia in Dio potrà godere di questi beni legati al compimento, soprattutto egli sarà figlio di Dio, in questo legame unico e forte che già lega Gesù Cristo a Dio Padre. Questo è ciò che aspetta i nostri defunti e ciascuno di noi.
Dal Vangelo secondo Matteo Mt 5,1-12
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Dove c’è Dio lì c’è la gioia
Gesù inizia la sua prima lezione del corso dal titolo «Conversione, cambiamento di mentalità» parlando della gioia. Non fa teoria, ma è talmente pratico da risultare addirittura provocatorio perché rivela l’aspetto paradossale della gioia e quello di Dio stesso. Coloro che una certa cultura definirebbe «poveretti» sono invece dichiarati beati. Gesù rivela subito il punto di vista di Dio; lui, che è l’Emmanuele Dio con noi, si fa prossimo ad ogni uomo. La gioia, sembra dire Gesù, non è il premio per le opere meritorie che compiamo, ma è l’esperienza di incontrare Dio e la relazione di amicizia con Lui. Tale rapporto d’intima conoscenza, di reciproca appartenenza e di comunione è possibile a patto che le nostre condizioni interiori siano favorevoli. La povertà, l’afflizione, la fame e la sete prima che essere condizioni sociali o psichiche devono essere disposizioni del cuore che vive la «mancanza» come lo spazio per lasciarsi avvicinare, curare, consolare, nutrire, guarire da Dio. Una persona rigida, saccente, intransigente, che è incapace di cambiare il proprio punto di vista e di mutare mentalità, vive il dramma della solitudine e si condanna alla infelicità. Colui che nelle ferite della sua umanità fragile e insufficiente incontra il Signore, e da lui si lascia amare, sente germogliare nel suo cuore la forza di vincere il male con il bene, di usare misericordia, di cercare la pace, di vedere non solo negli amici ma anche in coloro che lo umiliano, gli fanno del male, lo insultano, il proprio fratello e la propria sorella da amare con il cuore di Dio.
ORATIO
Signore Gesù, Emmanuele Dio con noi, Tu mi aspetti per farti avanti e rivelarti come l’amico fidato nei momenti più difficili della vita quando i falsi amici voltano le spalle e i vicini diventano improvvisamente distanti. Quando il livello della fiducia è molto basso Tu mi dai sicurezza, quando le speranze svaniscono tu riaccendi il desiderio della giustizia, quando la delusione mi abbatte Tu mi prendi per mano e mi rialzi, quando la paura mi blocca Tu mi dai la forza di perseverare nel bene, quando l’ira accende la mia aggressività Tu la plachi e mi riconduci a più miti consigli, quando vedo il male dappertutto Tu purifichi il mio cuore dal giudizio restituendogli la capacità di discernere la verità. Vienimi in aiuto Signore, non stare lontano da me, perché dove sei Tu, Dio mio, lì fiorisce la gioia.