Dal compromesso alla promessa – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

Dal compromesso alla promessa – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

3 Ottobre 2024 0 Di Pasquale Giordano

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

Gen 2,18-24   Sal 127   Eb 2,9-11  

O Dio, che hai creato l’uomo e la donna

perché i due siano una carne sola,

dona loro un cuore sempre fedele,

perché nella santità dell’amore

nulla separi quello che tu stesso hai unito.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro della Gènesi Gen 2,18-24

I due saranno un’unica carne.

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».

Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.

Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

Allora l’uomo disse:

«Questa volta

è osso dalle mie ossa,

carne dalla mia carne.

La si chiamerà donna,

perché dall’uomo è stata tolta».

Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.

La relazione è il dono più grande

L’opera più grande che l’uomo può fare non consiste nel suo lavoro ma nell’arte di intessere relazioni. In esse l’uomo esprime la sua dimensione più nobile, quella che lo rende più simile a Dio. Infatti, è nell’esperienza della relazione con gli altri che l’uomo scopre il senso più profondo della creazione e il motivo ultimo per cui Dio l’ha creato. Nella relazione con l’altro che si scopre sé stesso e, al contempo, si cresce raggiungendo la perfezione del proprio essere nell’amore. Presi dai ritmi quotidiani dell’esistenza possiamo essere tentati dal pensare che la vita coincida con il lavoro, inteso come forza attraverso la quale ho sotto controllo il mondo trasformandolo secondo un progetto personale. Adamo, che pur esercita il dominio sul mondo creato dando il nome agli animali selvatici e agli uccelli del cielo, non è felice perché non trova l’aiuto che lo corrisponda. Non è imponendo regole e norme che si da un ordine al mondo. Gli uccelli del cielo e gli animali selvatici sono il simbolo di quella libertà senza regole, o meglio, di chi assume come regola di vita il suo bisogno. Le cose cambiano quando Dio offre ad Adam la donna che dai lui è stata tratta. Finalmente Adam si riconosce in lei, avverte un legame di appartenenza che è libero dalla tendenza al possesso. Adam non impone il nome, e con esso la sua identità, non comanda ciò che deve fare esercitando su di essa il dominio del capo. Proprio perché la sente parte di sé riconosce la donna come un dono di Dio da accogliere con rispetto e onore. La donna è accolta come un aiuto dall’uomo che riconosce di essere mancante. Tuttavia, andando oltre il suo bisogno di aiuto, Adam vede nella donna un suo simile bisognoso a cui prestare aiuto. Sono entrambi nudi e non ne provano vergogna perché essi si accolgono e si donano vicendevolmente, senza paura di diventare oggetto di possesso o dipendente dall’altro.

Salmo responsoriale Sal 127

Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.

Beato chi teme il Signore

e cammina nelle sue vie.

Della fatica delle tue mani ti nutrirai,

sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda

nell’intimità della tua casa;

i tuoi figli come virgulti d’ulivo

intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto

l’uomo che teme il Signore.

Ti benedica il Signore da Sion.

Possa tu vedere il bene di Gerusalemme

tutti i giorni della tua vita!

Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!

Pace su Israele!

Dalla lettera agli Ebrei Eb 2,9-11

Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine.

Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.

Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.

Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.

Dio Padre origine della missione di Cristo e della vocazione dei cristiani

La pericope liturgica si inserisce nell’esegesi che l’autore sacro fa del Sal 8,5 per sostenere la tesi che Gesù è il Cristo sommo sacerdote misericordioso e fedele. Con l’incarnazione il «figlio dell’uomo» è stato «per poco (tempo)» inferiore agli angeli, dopo la morte è stato «coronato» di gloria affinché alla fine dei tempi abbia il dominio su tutto. Il fine della storia della salvezza è la comunione piena tra l’uomo e Dio. Questa è la missione che Dio affida a Gesù Cristo. Il coronamento di «gloria e di onore» implica sia la proclamazione regale sia la consacrazione sacerdotale. La regalità e il sacerdozio di Gesù si realizzano mediante la sua morte. Nella sofferenza si compie la volontà di Dio il cui progetto salvifico punta alla comunione. Le sofferenze e la morte di Cristo lo rendono perfetto in quanto Salvatore, incaricato di introdurre gli uomini nella gloria di Dio. Il verbo «rendere perfetto» e «compiere» (portare a pienezza) evoca il rito della consacrazione sacerdotale nel quale si riempivano e mani dei sacerdoti delle offerte che avrebbero poi sacrificato sull’altare di Dio. Dunque, come il rito di consacrazione (o perfezionamento) rendeva il sacerdote idoneo a compiere il suo ministero a vantaggio degli uomini e della loro relazione con Dio, così la sofferenza e la morte di Gesù lo hanno consacrato re e sacerdote affinché tutti gli uomini possano essere santificati. Sulla croce Gesù viene consacrato per santificare tutti gli uomini affinché tutti i figli dell’uomo possa godere del dono di essere figli di Dio.

+ Dal Vangelo secondo Marco Mc 10,2-16

L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto.

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».

Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».

A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

LECTIO

Il cap. 10, che si colloca nel contesto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, inizia con un cambiamento di luogo e di destinatari del suo insegnamento. Infatti, si passa dalla Galilea alla Giudea e dai discepoli alla folla. Il pellegrinaggio verso la Città santa è scandito da incontri che diventano occasione per trattare alcuni temi che erano particolarmente importanti per la comunità cristiana a cui scrive l’evangelista. Il primo di questi temi riguarda la liceità del divorzio. La questione particolare dello scioglimento del vincolo coniugale, avanzata dai farisei (vv. 1-9), diventa l’occasione per approfondire con essi e con i discepoli ( vv. 10-12) il problema del rapporto tra l’halakà, ovvero la tradizione giuridica ebraica, e la vita cristiana fondata sul vangelo. La pericope liturgica ha un’appendice nei vv. 13-16 i quali presentano ancora una volta la distanza che c’è tra il modo di fare dei discepoli e lo stile di relazione scelto da Gesù.  

La domanda posta dai farisei sembra avere come fine quello di chiarire su quali posizioni sia Gesù circa le motivazioni che possono giustificare il divorzio. Infatti, non era messa in discussione la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale, ma le due maggiori scuole, la più rigorista di Shammai e quella più possibilista di Hillel, si confrontavano sulle condizioni che rendevano lecito la scrittura del documento del ripudio. Il Maestro non elude la domanda ma risponde svincolandosi dai meccanismi di discussioni inutili per portare il discorso su binari che conducono al cuore della legge. Gesù replica con un’altra domanda che costringe i suoi interlocutori ad andare alla fonte e ascoltare la voce di Mosè. I farisei ammettono che egli non ha trasmesso un comando di Dio ma ha offerto una possibilità. Si trattava, infatti, di una sorta di norma che regolava la relazione tra l’uomo e la donna. Quest’ultima spesso era vittima delle angherie dell’uomo il quale in quella società maschilista gli era riconosciuto un potere esclusivo sulla sposa. Anche Giuseppe pensava di ricorrere a questa possibilità davanti ai segni della gravidanza di Maria. L’atto di ripudio era permesso quale forma di protezione della vita della donna che era caduta nel peccato di adulterio, sanzionato con la pena di morte. La «durezza di cuore» indica l’irrigidimento della persona umana davanti ai comandamenti di Dio, e più in generale, dei suoi doni. Il divorzio era considerato come una sorta di diritto dell’uomo esercitato come risarcimento per il danno subito dalla donna col suo peccato. L’idea di fondo era quella che con il ripudio si ristabiliva la giustizia ferita mortalmente col peccato. Gesù, dunque, invita non fermarsi discutere sulle soluzioni umane al dramma dell’infedeltà e dell’ingiustizia ma ad andare all’origine, dove rintracciare la parola di Dio e la sua volontà. Al principio non c’è l’opera dell’uomo, ma la parola creatrice di Dio. L’attenzione viene spostata con forza dalla fredda norma della legge alla persona nella quale s’incarna la Parola. Gesù si richiama al prio racconto della creazione. Adam, uomo, non è sinonimo di maschio ma di persona che è maschio e femmina. Non vi è dunque nessuna priorità dell’uomo rispetto alla donna perché sono creati insieme, e non separatamente, al fine stare insieme ed essere «una carne». Perché questo possa accadere è necessario che l’uomo, sia maschio che femmina, faccia la scelta di “rinunciare” a sé, al proprio individualismo, perché sia dono per l’altro. «Lasciare il padre e la madre» non vuol dire abbandonarli disonorandoli, ma significa fare un passaggio che comporta l’uscire dalla propria «patria» (zona di comfort familistico) per realizzare la parola di Dio che punta alla realizzazione della comunione. La «carne» indica l’umanità segnata dalla fragilità e dall’insufficienza. Chi prende consapevolezza della propria povertà, tipica della «carne», avverte il bisogno di essere oggetto di amore ovvero di cura e sostegno. La condizione di mancanza istintivamente porta a «prendere» o «trattenere» mentre la parola di Dio indica la strada del donare, meglio ancora, del «donarsi». Il fine del comandamento è quello di consegnare all’uomo la sua vocazione, il suo programma di vita, che non consiste nel cercare la soddisfazione di sé, ma la costruzione della comunione familiare, riflesso e sacramento di quel «principio» da cui tutto viene e a cui tutto è orientato. Il verbo tradotto con «unirsi» richiama l’immagine del porsi insieme sotto il medesimo giogo. Ciò che li unisce è la comune sottomissione alla volontà di Dio e, dunque, la comune volontà di servirLo. Ne risulta che il comando di Dio è innanzitutto positivo perché stimola la creatività dell’amore. Gesù aggiunge un altro comandamento che è negativo come molti del Decalogo «L’uomo non deve dividere ciò che Dio ha unito». La parola creatrice di Dio si realizza con la corresponsabilità dell’uomo e della donna. Il reciproco sì l’uno per l’altro, originato dalla comune volontà di fare la volontà di Dio, è il modo con il quale realizzare il suo comandamento. La comunione è il criterio ultimo per discernere la volontà di Dio, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è bene e ciò che è peccato. All’opera creatrice di Dio si oppone quella distruttrice del Diavolo, chiamato anche Satana o «Avversario». La Legge è la via attraverso cui l’uomo diventa «cocreatore» e «procreatore». La norma di Mosè è causata dalla «durezza del cuore», con cui l’uomo deve fare sempre i conti, mentre il comandamento di Dio è per sanare il cuore dell’uomo e renderlo capace di amore fedele ed eterno. Il profeta Geremia annuncia la nuova alleanza scritta nel cuore (Ger 31).

Il dialogo pubblico con i farisei cede il posto a quello più confidenziale, ma non meno autorevole, con i discepoli mentre sono a casa. L’ambiente domestico richiama le nuove comunità dei primi cristiani che si riunivano nelle case per far riecheggiare la parola di Gesù capace di illuminare le scelte di vita, soprattutto in situazioni nelle quali si corre il rischio di perpetuare tradizioni operative e di pensiero in dissonanza col Vangelo. Anche nelle nuove comunità che si erano create nel contesto greco-romano, nelle quali il diritto al divorzio era riconosciuto pure alle donne, valeva l’autorità del Decalogo che condanna l’adulterio. Gesù, infatti, non è venuto ad abolire la Legge ma a dare pieno compimento. La norma del ripudio è dunque una porta aperta a compiere il peccato di adulterio. Adulterina è quella relazione che non contravviene tanto alla norma quanto invece alla volontà di Dio e, dunque, alla vocazione della persona. L’adulterio è peccato perché distrugge la felicità che Dio offre all’uomo attraverso il dono di una persona da amare «nella carne», ovvero proprio perché è fragile e bisognosa di cura.

Il v. 13 descrive la scena che ritrae dei bambini portati a Gesù perché li benedicesse, imponendo la mano su di loro, e la reazione scomposta dei discepoli che impediscono il contatto col Maestro. Questo atteggiamento dei discepoli suscita lo sdegno di Gesù che prende fermamente le distanze da quel maldestro modo di fare. Il comportamento dei discepoli è in netta contrapposizione con lo stile di Gesù. Essi si ergono a difensori della sua persona creando un cordone di sicurezza contro persone che vengono percepite come una fastidiosa minaccia. I bambini rappresentano i membri della comunità più fragili e maggiormente esposti al peccato. I discepoli devono preoccuparsi di più che essi possano sperimentare la tenerezza terapeutica di Dio piuttosto che ergersi a custodi di norme e giudici inflessibili dei fratelli peccatori. I bambini, come tutti coloro che sono consapevoli del loro peccato, trovano consolazione e speranza solo in Dio. La compassione non misconosce il peccato ma ha uno sguardo più intelligente per cogliere, al di là della debolezza, la dignità della persona, la sua vocazione alla felicità e il comune bisogno di amore. Solo questo sguardo di compassione permette che il ministero dei discepoli non devii verso una fredda e fiscale pratica di precetti ma nel suo esercizio sia orientato dal principio dell’amore creativo e dal fine della comunione familiare.

MEDITATIO

Dal compromesso alla promessa

Se il matrimonio fosse un semplice contratto tra due persone, con il quale si mettono d’accordo per stare insieme, allora è pur giusto che, venendo meno le condizioni che hanno portato a redigerlo, si scriva un atto per annullarlo. Il ripudio è un atto con il quale si manifesta la volontà di porre fine ad una relazione per intraprenderne un’altra. Naturalmente questo significa derubricare il matrimonio da relazione d’amore tra due persone a rapporto commerciale basato su interessi personali garantiti dalla legge. Il matrimonio è «promessa», non compromesso. La legge degli uomini, infatti, ha come fine quello di gestire l’ordine pubblico e definire i confini della libertà individuale perché non vada a mortificare quella degli altri. Il vero problema non è la legge ma il cuore, cioè il modo con il quale si usa la legge: se per coltivare i propri interessi o applicare la giustizia. I farisei, che mettono alla prova Gesù, vogliono nascondere le proprie cattive intenzioni dietro quella che sembra essere una domanda innocua. Il ripudio, permesso da Mosè, è la denuncia della durezza del cuore degli israeliti, gli stessi che commettono adulterio contro Dio perché, avendo a cuore più le tradizioni degli uomini che la legge di Dio, lo tradiscono separandosi da Lui. Infatti, il vero peccato è adulterare il rapporto con Dio che ha come conseguenza la corruzione della relazione con gli altri. La legge degli uomini può addirittura assecondare l’orgoglio e la cupidigia che induriscono il cuore al punto da assumere come criterio fondamentale per le proprie scelte quello della convenienza. Prima del permesso di Mosè c’è la promessa di Dio e prima di un cuore indurito c’è un cuore ferito. All’origine c’è l’attenzione premurosa di Dio che fa suo il dolore della solitudine dell’uomo. 

La solitudine è una maledizione, ovvero ciò che fa male. Gli animali hanno in comune con l’uomo il fatto di essere “terrestri” e quindi mortali. Essi non hanno quello spirito che li fa diventare esseri viventi, come è l’uomo. Non lo diventano neanche se lui impone un nome. Gli animali, per quanto possano essere utili e destinatari di affetto, cura e attenzione, non sono in grado di colmare il vuoto della solitudine perché il rapporto con loro va nella linea della possessività e non della oblatività che caratterizza l’amore umano e che è un dono di Dio. Dio, ha compassione dell’uomo e lo benedice mediante il dono dell’altro. La soluzione al male della solitudine è la relazione che si crea quando l’io incontra il tu dell’altro da sé ma che al contempo è parte di sé. L’appartenenza, in prima battuta, non è una scelta ma una realtà che precede la mia volontà e che nasce da quella di Dio. L’uomo nasce con una mancanza, che si rivela come un bene, cioè il fatto di non bastare a sé stesso. Egli può tutto, ma non è tutto. È incompleto, incompiuto. Come tale egli è in ricerca di quell’aiuto che gli corrisponda. Si tratta di un interlocutore che gli stia difronte con cui entrare in dialogo faccia a faccia. L’interlocutore privilegiato non possono essere gli animali, con i quali si condivide l’appartenenza alla terra, ma il tu dell’altro da me nel cui corpo riconosco l’appartenenza comune a Dio. Quello dell’uomo, infatti, non è solo corpo terrestre, ma è corpo spirituale perché in esso scorre lo Spirito di Dio. La donna è generata dall’uomo ma è opera di Dio. L’uomo riconosce nella donna l’azione di Dio e il dono che Egli fa di lei a lui. La donna, il tu dell’altro da me, è la benedizione di Dio che sconfigge la maledizione della solitudine. La benedizione può trasformarsi nuovamente in maledizione se l’uomo dimentica che Dio offre nell’«aiuto che gli corrisponde» la benedizione necessaria per guarire dalla solitudine.

All’uomo compete il dovere di custodire e alimentare questa relazione perché diventi benedizione nei figli. L’uomo davanti agli animali impone il nome ma non è felice, mentre davanti alla donna lo è perché la chiama per nome, un nome non imposto da lui ma suggerito da Dio. Chiamare per nome significa riconoscere l’identità dell’altro, la sua dignità e chi è l’altro per me. Da qui derivano le scelte, la più importante delle quali è lasciare il padre e la madre per unirsi alla donna e formare una sola carne. Lasciare significa trasformare i legami di dipendenza in un rapporto di responsabilità. Lasciare vuol dire farsi povero e creare quello spazio necessario nel cuore affinché l’altro sia accolto come dono da custodire e accudire.

Gesù, dice la lettera agli Ebrei, non si vergogna di chiamarci fratelli. Egli si spoglia di ciò che separa dall’altro per unirsi a noi nella fraternità nella quale fare festa e condividere la gioia. Gesù, l’uomo sofferente della croce, facendosi fratello nel dolore ad ogni uomo e condividendo con lui la maledizione della solitudine, si rivela come sposo dell’umanità perché egli riceve un corpo da Maria e lo offre per amore unendosi ad ogni uomo.

Al centro non può esserci solo l’Io, altrimenti diventa un Io solo. Dall’ “Io sono” all’ “io solo” il passo è breve. L’io verso te, l’io con te, l’io per te, l’io in te, diventa Noi, fecondo, sorgivo, splendente, fruttuoso, solido, eterno come è l’amore. Siamo la donna plasmata dalla sofferenza di Cristo che sulla croce vive il dramma della solitudine. La fraternità nasce dal sonno della morte in cui Dio genera una relazione a partire dal fallimento ma anche dal desiderio di vita che da esso scaturisce. Il Cristo crocifisso risorto ci rivela che il progetto di Dio per l’uomo si realizza attraverso Gesù, nostro fratello e sposo. Noi siamo il tu dell’ “Io sono” «con, per, in»  di Dio.

ORATIO

Signore Gesù, sposo dell’umanità,

che hai sofferto fino alla morte

per amarci fino alla fine,

sei il nostro capo che conduce a salvezza

coloro che non ti vergogni

di chiamare fratelli anche se

ti tradiscono, ti rinnegano e ti rifiutano,

perché, nonostante tutto,

siamo figli dell’unico Dio

che è Padre e Madre.

Contempliamo la tua gloria,

che splende sul tuo capo

insanguinato e coronato di spine,

e il tuo onore la cui drammatica bellezza

risiede nella tua nudità sulla croce.

Tu, che ti sei fatto uomo piccolo,

come un bambino,

custodisci in noi un cuore da fanciullo

bisognoso di affetto

e desideroso di amore.

Guariscici dal peccato

della cupidigia e dell’orgoglio

che ci rende refrattari

alla forza della tua Parola

e insensibili alla povertà dei fratelli.

Liberaci dalla presunzione

di manipolare le persone

in base al criterio della convenienza

e converti il nostro cuore

perché le nostre relazioni

non siano un tentativo di compromesso

ma la realizzazione della tua promessa.

Benedicimi Signore

e fa di me un fratello di ogni uomo,

portatore della benedizione del Padre,

quella che libera

dalla maledizione della solitudine

e che tutti unisce

in un vincolo spirituale di amore, di pace e di gioia. Amen.