Umiltà e umanità sono i fiori più belli della fede – Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari) – Santi Cornelio e Cipriano

Umiltà e umanità sono i fiori più belli della fede – Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari) – Santi Cornelio e Cipriano

15 Settembre 2024 0 Di Pasquale Giordano

Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari) – Santi Cornelio e Cipriano

1Cor 11,17-26.33   Sal 39

O Dio, che hai dato al tuo popolo i santi Cornelio e Cipriano,

pastori generosi e martiri intrepidi,

per la loro intercessione rendici forti e perseveranti nella fede

e fa’ che operiamo assiduamente per l’unità della Chiesa.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 11,17-26.33

Se vi sono divisioni tra voi il vostro non è più un mangiare la cena del Signore.

Fratelli, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio.

Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova.

Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri.

Annunciare con la vita fraterna la potenza della morte di Gesù

L’apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto che si riuniscono insieme per «mangiare la cena del Signore» (v. 20). Questo avviene in una delle case che raccoglie la Chiesa di Dio. La dimora privata nella quale si consuma abitualmente il proprio pasto quotidiano diviene uno spazio sacro quando si celebra la «cena del Signore». Quello che gli ebrei celebrano una volta all’anno, i cristiani invece lo celebrano settimanalmente. La cena pasquale è chiamata la cena del Signore perché Gesù è il protagonista. Paolo ricorda ai Corinti il significato dell’eucaristia (termine utilizzato dalla Didaché) fungendo da padre di famiglia che risponde alla domanda dei figli sul significato del rito pasquale, come era usanza nella cena della Pasqua ebraica. La tradizione che Paolo trasmette è in comune con quella della Chiesa per la quale scrive l’evangelista Luca. Nell’ultima cena Gesù spezzando il pane e distribuendo il vino rivela il senso della sua Pasqua che sta per compiersi. Se i fatti metteranno in evidenza l’ingiustizia perpetrata nei suoi confronti per mano degli uomini, Gesù fornisce una chiave di lettura che invece rivela una verità più grande: nella morte egli dona la sua vita per realizzare la nuova ed eterna alleanza con Dio. Paolo riporta le parole di Gesù, quelle che gli apostoli hanno ascoltato e che hanno assunto come chiave ermeneutica per comprendere la verità della morte del loro Maestro. Una volta risorto, lo hanno incontrato vivo. Cristo, donando loro lo Spirito, ha permesso di sperimentare la potenza della salvezza e di credere in Lui. Attraverso il sacrificio di Gesù, anticipato nel segno del pane spezzato e del calice del vino condiviso, Dio opera la conversione del cuore dell’uomo perché assimili la logica dell’amore oblativo e lo viva nelle relazioni di cura e di aiuto con gli altri. Il rito inaugurato da Gesù nell’ultima cena rivela il dono della vita divina offerta nella sua morte in croce. Il rito della Chiesa di Dio non è una rievocazione storica con la quale si va indietro con la memoria ad un evento passato; è memoria di Gesù che, nell’oggi di ogni eucaristia, dona la sua vita per il perdono del peccato di tutti gli uomini affinché possano annunciare con la propria vita la potenza dell’amore di Dio che salva dalla morte.

+ Dal Vangelo secondo Luca Lc 7,1-10

Neanche in Israele ho trovato una fede così grande.

In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao.

Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga».

Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».

All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

Umiltà e umanità sono i fiori più belli della fede

In cosa consiste la fede di questo soldato romano lodata da Gesù? lo si evince innanzitutto dall’umanità con la quale tratta il suo servo che è malato gravemente. Quest’uomo è un sottomesso al potere romano e lui stesso ha dei servi che stanno alle sue dipendenze. Egli vive la sua autorità dando dei comandi che vengono eseguiti dai servi verso i quali si rapporta non come un funzionario ma come fratello. Il suo atteggiamento ci insegna a non trincerarci dietro una funzione per esercitare un potere oppressivo ma ad interpretare la propria autorità come una missione con la quale ci si prende cura degli altri perché li si ha a cuore! La seconda caratteristica della fede del centurione è l’umiltà che mitiga il senso di onnipotenza nel cui delirio si può cadere se si usa l’autorità per accrescere il proprio potere piuttosto per far crescere gli altri. L’umiltà si esprime innanzitutto nel rinunciare a far valere la propria autorità e a parlare in prima persona e poi anche nell’usare il canale della mediazione. La fede mal si coniuga con l’autoreferenzialità ma si concilia benissimo con il coinvolgimento delle altre persone. Umile è colui che chiede aiuto e si fa aiutare nel farlo. La pretesa è il contrario dell’umiltà. E infatti il centurione fa un atto di umiltà, quando si professa indegno nell’accogliere Gesù a casa sua, a cui segue una esplicita professione di fede nella potenza della sua parola. Credere significa essere certi che la parola di Dio è efficace anche quando non se ne vedono i segni. La fede non nasce dai segni, ma è la condizione perché essi si realizzino e che siano riconosciuti. Il vero miracolo è quello che si compie già nell’atto di fede quando si inverte la logica del vedere per credere e diventa credo, perciò vedo. La guarigione del servo rivela che la salvezza operata da Gesù non è il prodotto dei meriti ma è la verità che precede il nostro atto di fede e ne è anche l’oggetto. Credere significa avere la certezza che Dio mi ama a prescindere dai miei meriti come lo è anche l’efficacia della sua parola.

Signore Gesù, donami l’umiltà che lo Spirito Santo ha messo nel cuore del centurione e accresci in me la fede perché non sia vincolata a desideri e speranze mondane ma sia radicata nella salvezza che tu operi a vantaggio degli uomini a prescindere dai loro meriti. Fammi dono della fede perché mi preservi dalla deriva dell’autoreferenzialità e dalla tentazione di esercitare l’autorità con arroganza e per fini personali. L’umiltà mi faccia progredire nell’umanità con la quale testimoniare la fede nelle quotidiane occasioni che mi sono offerte per amare il prossimo come me stesso, per prendermi cura degli altri come ognuno fa con il proprio corpo.