La nostra vita si mantiene sull’amore di Dio – Lunedì della XIX settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

La nostra vita si mantiene sull’amore di Dio – Lunedì della XIX settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

10 Agosto 2024 0 Di Pasquale Giordano

Lunedì della XIX settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

Ez 1,2-5.24-28   Sal 148  

Dio onnipotente ed eterno,

guidati dallo Spirito Santo,

osiamo invocarti con il nome di Padre:

fa’ crescere nei nostri cuori lo spirito di figli adottivi,

perché possiamo entrare nell’eredità che ci hai promesso.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro del profeta Ezechièle Ez 1,2-5.24-28

Così percepii in visione la gloria del Signore.

Era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn, il cinque del mese: la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechièle, figlio di Buzì, nel paese dei Caldèi, lungo il fiume Chebar. Qui fu sopra di lui la mano del Signore.

Io guardavo, ed ecco un vento tempestoso avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di metallo incandescente. Al centro, una figura composta di quattro esseri animati, di sembianza umana. Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell’Onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto d’un accampamento. Quando poi si fermavano, ripiegavano le ali.

Ci fu un rumore al di sopra del firmamento che era sulle loro teste. Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve qualcosa come una pietra di zaffìro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembravano i suoi fianchi in su, mi apparve splendido come metallo incandescente e, dai suoi fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore simile a quello dell’arcobaleno fra le nubi in un giorno di pioggia. Così percepii in visione la gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra.

La teofania a Ezechiele: Dio non abbandona il suo popolo

Il libro di Ezechiele, come quello di Geremia, si apre con il racconto di vocazione che presenta e accredita il profeta davanti al lettore, come un giorno aveva fatto davanti ai suoi ascoltatori. Il racconto si articola nella narrazione della teofania, che occupa il capitolo 1, a cui segue quello della vocazione e missione (2, 1-3,11) e in una conclusione in 3, 12.15. La visione teofanica, come in Is 6 e Es 3, è il contesto nel quale si inserisce l’incarico profetico affidato a Ezechiele.

La scena della teofania, che inaugura la missione di Ezechiele, si colloca nel 593 a. C.; da cinque anni Nabucodònor, re di Babilonia, per castigare la ribellione del suo vassallo, Ioiakìm di Giuda, ha deportato la casa reale, i notabili e gli artigiani della capitale e ha nominato al suo posto un altro re, Sedecia (2Re 24). Per i deportati la vita è molto dura e sorgono tante domande: Israele è ancora il popolo “eletto”? Torneranno ancora in patria? A Gerusalemme continuavano a sussistere le due istituzioni fondamentali: la casa di Davide (la monarchia) e la Casa di Dio (il tempio e il culto). A Gerusalemme c’è anche la parola di Dio pronunciata da Geremia, mentre in Babilonia i deportati si sentono abbandonati perché non hanno un re, che giace in carcere, non hanno il tempio e neanche un profeta che dia loro una parola che illumini la disperazione. Ezechiele è la risposta al grido degli Israeliti esiliati.

Nel racconto della teofania domina l’elemento visivo che tuttavia non è facile descrivere perché attraverso delle immagini si vuole trasmettere la percezione che si ha davanti alla «gloria di Dio» che si manifesta come fulgore, splendore e luce. L’intensità della visione è tale che supera le capacità visive del profeta che, comunque, riconosce la manifestazione del divino e l’adora.

Dalla descrizione di Ezechiele si evince che la «gloria di Dio» è associata ad esseri viventi tetramorfi, o cherubini, che anche nella tradizioni orientali custodivano le porte del tempio e rendevano omaggio alle divinità, e a un carro con le ruote come quello che serviva per le processioni con l’arca dell’alleanza. Il riferimento all’arca dell’alleanza, considerato lo sgabello del trono di Dio, intende rendere visibile la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. «La mano del Signore» s’impadronisce del profeta e lo dirige nella sua attività ispirata.

+ Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 17,22-27)

Lo uccideranno, ma risorgerà. I figli sono liberi dal tributo.

In quel tempo, mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati.

Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì».

Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei».

E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

La nostra vita si mantiene sull’amore di Dio

Dopo l’evento della trasfigurazione, in cui la voce dal cielo indirizzata ai tre discepoli li invitava ad ascoltare il Suo Figlio amato, e la liberazione di un giovinetto che gli altri discepoli non erano riusciti a curare per la loro poca fede, è presentato un altro quadro narrativo introdotto dall’insegnamento che Gesù offre ai discepoli circa la sua Pasqua. Su di essi cala un velo di tristezza e preoccupazione che fa forse dire a Pietro, che era stato interrogato sul fatto del pagamento della tassa per il tempio, una bugia per salvaguardare l’onore del suo maestro. Prima che Pietro riferisca l’accaduto, Gesù lo interroga, come fa un maestro con i suoi discepoli, sulla liceità della tassa richiesta. La tassa era una forma di sudditanza imposta ai popoli stranieri conquistati, mentre i figli, cioè i notabili, erano liberi da tale vincolo. Richiedere di pagare una tassa per il tempio significava affermare che Dio esige qualcosa per mantenere in piedi una struttura; questo è ciò che di più distante ci possa essere dal vangelo! In realtà ciò che Dio sollecita non è assolutamente un prezzo da pagare, ma di vivere la fede con corresponsabilità soprattutto nella vita fraterna. Il tempio da mantenere non è un edificio, ma innanzitutto la comunità, cioè la Chiesa, fatta di pietre vive che sono i battezzati, e che abbraccia tutta l’umanità. Attraverso il suo sacrificio Gesù “paga il prezzo del nostro riscatto”, in modo che da estranei diventiamo figli. Nessuno di noi potrebbe pagare il prezzo della libertà per riscattare la propria vita; è Dio che con il suo sangue, attraverso la sua vita donata, ben più preziosa di una moneta d’argento, ci fa figli liberi. Tuttavia, la libertà dei figli non è anarchia e autosufficienza, ma essa si esercita in pienezza nel momento in cui, insieme al sacrificio di Cristo Signore, viene offerta la nostra vita fatta di gioie e dolori, fallimenti e successi, cadute e ricominciamenti.

Signore Gesù, Tu che sei la pietra fondamentale del tempio di Dio distrutto dagli uomini con la morte ma riedificato definitivamente dal Padre con la risurrezione in forza dello Spirito Santo, fa di noi le membra vive del tuo Corpo, che è la Chiesa. Ti rendiamo grazie perché col sacrificio della tua vita hai pagato il riscatto della nostra esistenza sottraendola al dominio del peccato e della morte per renderci tutti figli dell’unico Padre e fratelli tra noi. Aiutaci a testimoniare con i gesti quotidiani di carità la grandezza del tuo amore affinché la tua Parola sia guida per chi ricerca la verità, sostegno e conforto per chi sbaglia e compagna fedele di chi vaga senza aver chiara la meta del suo cammino.