Il marchio d’infamia e il sigillo di autenticità – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

Il marchio d’infamia e il sigillo di autenticità – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina

31 Luglio 2024 0 Di Pasquale Giordano

XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Lectio divina

Es 16,2-4.12-15   Sal 77   Ef 4,17.20-24  

O Dio, che affidi al lavoro dell’uomo

le risorse del creato,

fa’ che non manchi il pane sulla mensa dei tuoi figli,

e risveglia in noi il desiderio della tua parola.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.


Dal libro dell’Èsodo Es 16,2-4.12-15

Io farò piovere pane dal cielo per voi.

In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne.

Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».

Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».

La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».

Una sofferenza educativa

Il passaggio del Mar Rosso, nel quale gli Israeliti erano transitati all’asciutto mentre gli Egiziani erano periti con i loro carri e cavalli, ha inaugurato il cammino dell’esodo. Come indicato da Dio, la liberazione dalla schiavitù dalla terra di schiavitù era solo il primo passo dell’itinerario di conversione per essere liberi di servire Dio nella fedeltà e nella giustizia. La missione di Mosè è di condurre il popolo all’incontro con Dio sul monte dove si era manifestato a lui. Prima la mancanza di acqua e poi quella di cibo fanno emergere le prime criticità. Il popolo mormora contro Mosè accusato di una cattiva gestione della situazione. Colui che aveva compiuto dei segni, su comando di Dio, non viene riconosciuto nella sua autorità e, invece di chiedere la sua intercessione, lo maltrattano. Dio, da parte sua, gli conferma la fiducia e continua a parlare al popolo mediante Mosè. Promette di venire in aiuto al loro bisogno e al profeta confida che la provvidenza ha una finalità educativa e terapeutica: guarire dall’avidità di possesso. Come le dieci piaghe anche i prodigi nel deserto hanno la funzione di cambiare il cuore dell’uomo. Dio con Israele adotta una tecnica diversa da quella messa in atto con il faraone perché Egli resiste ai superbi e fa grazia agli umili. Di qui l’avvertenza di Dio rivolto al popolo a non indurire il cuore, come ha fatto il faraone, perché non qual caso si lascerebbe scappare l’occasione della libertà. 

Salmo responsoriale Sal 77

Donaci, Signore, il pane del cielo.

Ciò che abbiamo udito e conosciuto

e i nostri padri ci hanno raccontato

non lo terremo nascosto ai nostri figli,

raccontando alla generazione futura

le azioni gloriose e potenti del Signore

e le meraviglie che egli ha compiuto.

Diede ordine alle nubi dall’alto

e aprì le porte del cielo;

fece piovere su di loro la manna per cibo

e diede loro pane del cielo.

L’uomo mangiò il pane dei forti;

diede loro cibo in abbondanza.

Li fece entrare nei confini del suo santuario,

questo monte che la sua destra si è acquistato.

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni Ef 4,17.20-24

Rivestite l’uomo nuovo, creato secondo Dio.

Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.

Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.

La vita nuova

San Paolo esorta i cristiani di Efeso ad avere una condotta di vita che riveli al mondo l’opera compiuta da Dio in loro con il Battesimo. Il sacramento rappresenta lo spartiacque tra il prima e il dopo, tra l’uomo vecchio e la nuova creatura, tra un modo di vivere sotto la schiavitù del peccato che corrompe e delle passioni carnali che ingannano e una condotta di vita che è invece guidata dallo Spirito, artefice della pace e artigiano di relazioni fraterne basate sull’amore reciproco. Il battesimo inaugura il cammino della Pasqua del cristiano il quale è responsabilizzato dalla grazia di Dio affinché imitando Gesù, nelle parole e nei gesti, possa rendersi docile all’opera della Spirito che tutti conforma a Cristo Signore, l’uomo nuovo.

+ Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 6,24-35

Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».

Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».

Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».

Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».

Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

LECTIO

La pericope liturgica non è la diretta continuazione del brano evangelico della scorsa domenica perché la reazione della folla che «ha smarrito» Gesù presuppone l’evento della traversata del lago e il cammino di Gesù sull’acqua (vv.16-21). Questo episodio ha la funzione di raccordare il segno della moltiplicazione dei pani e il discorso nella sinagoga di Cafarnao che occupa gran parte del capitolo 6 del vangelo. Si tratta di un racconto di miracolo che culmina con un’«epifania» nella quale Gesù rivela la sua identità divina. Dopo la separazione tra Gesù, che sale sul monte, e la folla con i discepoli avviene il ritrovarsi insieme. Infatti, Gesù reagisce al tentativo della folla di prenderlo per farlo re, con la fuga verso la cima della montagna, luogo della preghiera e dell’intimità don Dio. Invece i discepoli aspettano Gesù fino all’imbrunire e, non vedendolo arrivare, prendono la decisione d’imbarcarsi senza di lui. Prendono due strade diverse: Gesù sale e rimane sul monte mentre i suoi discepoli scendono e navigano sull’acqua che ben presto diventerà agitata a causa del vento che impedisce una navigazione tranquilla. In questo contesto critico Gesù cammina sull’acqua andando incontro ai discepoli, i quali vedendolo sono presi dalla paura. Li rassicura dicendo: «Io sono, non temete». È chiaramente una formula che richiama il nome con il quale Dio si presenta. Vinta la paura, i discepoli esprimono la volontà di accogliere Gesù nella barca e, prima che accada, si ritrovano sulla terra ferma come se l’acqua si fosse ritirata. L’episodio ha dei chiari riferimenti alla notte della Pasqua, il passaggio del mar Rosso. In questo caso più forte del vento impetuoso, che agita l’acqua e che minaccia l’incolumità degli uomini, è la parola di Gesù. Rileggendo la scena con gli occhi dei discepoli, Gesù che cammina sull’acqua, rende visibile ciò che affermano molti passi dell’Antico Testamento che interpretano il passaggio del Mar Rosso come manifestazione della potenza di Dio. In altri termini, Gesù, che è stato capace di nutrire una moltitudine di gente, non è solo un profeta che il popolo vorrebbe eleggere come re, ma è il Signore che s’impone sulle forze del male per condurre a salvezza il suo popolo.

La narrazione riprende dalla mattina del giorno dopo ritornando sul luogo in cui era rimasta la folla saziata con i pani e i pesci dati da Gesù. Gesù aveva intuito le intenzioni della gente e fugge per sottrarsi a quella strategia che lo avrebbe portato ad essere «ostaggio» della folla. Infatti, innalzandolo alla dignità regale la gente pensava che avrebbe potuto tenerlo sotto controllo. Riconoscere un’autorità non sempre significa sottomettersi ad essa e obbedirgli, spesso invece comporta la volontà di dominio e di sottomissione. Questa è la strategia diabolica che promette potere e successo in cambio della totale consegna della propria volontà nelle sue mani. Gesù, invece, consegna la sua libertà nelle mani di Dio, scende verso gli uomini per offrirsi a loro e per questo viene innalzato dal Padre affinché la sua gloria sia condivisa anche da coloro che lo seguono e lo imitano. Dunque, dopo aver mostrato il cammino di Gesù e dei discepoli, l’attenzione dell’evangelista ritorna sulla folla che era rimasta sulla sponda. Probabilmente i discepoli avevano incaricato qualcuno di aspettare Gesù quando sarebbe sceso dal monte e di accompagnarlo all’altra riva verso cui essi lo avrebbero preceduto. L’attesa, durata tutta la notte, era passata senza che Gesù si fosse visto. Nel frattempo, altra gente, saputo del fatto dei pani si era imbarcata dai paesi vicini per andare da Gesù. Tutti lo cercano senza trovarlo e allora si decide di imbarcarsi verso la riva dove la sera prima erano diretti i discepoli di Gesù.

Fatta questa necessaria premessa, si può passare ad analizzare la pericope liturgica che funge da primo atto del discorso di Gesù il quale risulta incorniciato da due riferimenti a Cafarnao (v. 24.59). Dal v. 59 sappiamo che l’insegnamento di Gesù avviene nella sinagoga. Nel luogo dedicato all’ascolto della Parola, Gesù si confronta prima con la folla (vv. 24-40) che lo cerca perché ha visto i segni compiuti da lui e ne chiede altri, e dopo con i Giudei (vv. 41-51.52-58) che si manifestano refrattari e ostili all’insegnamento del Maestro. L’insieme del discorso sembra essere un’omelia di tipo rabbinico. Si parte, infatti, con un brano della Torà (v. 31 in cui è citato Es 16,4), che è discusso e interpretato (vv. 32-42), per passare alla seconda lettura tratta dai Profeti (v. 45 cita Is 54,13) che illustra quanto detto precedentemente (vv. 43-52), e si finisce con la sintesi e l’applicazione (vv. 53-58). L’insegnamento di Gesù è imbastito attorno alle due autorivelazioni che fungono dai due fuochi di un’ellisse: «Io sono il pane della vita» (v. 35.48).

La pericope liturgica si apre con l’annotazione dell’evangelista del viaggio della folla alla ricerca di Gesù al quale, appena trovatolo, chiede: «Quando sei giunto qui?». A partire da questa domanda si sviluppa il discorso-dialogo tra Gesù e la folla che consta di quattro battute (vv. 25-27.28-29.30-33.34-40). Nella prima Gesù replica alla folla rivelando le sue intenzioni nel cercarlo. La gente vuole colmare un vuoto conoscitivo: essi non sanno quando e come Gesù si trovi a Cafarnao e vorrebbero apprenderlo da lui. Il Maestro, introducendo la risposta alla domanda della folla, attesta che lui è in possesso di una verità che li riguarda: egli li conosce nell’intimo e sa leggere nel cuore le loro intenzioni. Ciò che spinge gli uomini a cercare Gesù non è la speranza di vedere Dio e il desiderio di incontrarlo, ma il bisogno di nutrirsi. Quando si parla di cibo si fa riferimento al bisogno primario, condizione di base per vivere. Gesù non biasima la folla ma l’aiuta a leggersi dentro e a distinguere tra il bisogno e la speranza. All’indicativo, che rivela la condizione di vita nella quale si è sperimentata la propria povertà e la provvidenza, segue l’imperativo «operate/lavorate» o «datevi da fare», per quale fine? Per ottenere un cibo i cui effetti non sono passeggeri ma duraturi. Il cibo materiale è lo scopo per cui gli uomini si sono messi in viaggio. In fondo questa è una verità storica per i popoli nomadi: il fine del cammino è la ricerca di un luogo da dove poter trarre nutrimento. Il flusso migratorio è determinato dalle prospettive di vita. È interessante ritornare al dialogo tra Gesù e i discepoli, subito dopo quello con la donna Samaritana (4, 31-38). I discepoli erano andati in città ad acquistare cibo mentre Gesù aspettava seduto al pozzo. Ritornando si erano stupiti che il Maestro stesse parlando con la donna ma non indagano; piuttosto lo invitano a prendere cibo ma egli replica: «Io devo mangiare un cibo che voi non conoscete» e poi chiarisce, «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera» (4, 32.34). I discepoli offrono a Gesù un «cibo che deperisce» mentre rivela che egli desidera mangiare un cibo che essi non possono comprare e che solo Dio gli da: la sua parola/volontà. Il Maestro rivela che lo scopo della sua vita è mettere in pratica la volontà di Dio. Come senza cibo l’uomo non vive, così senza la parola di Dio l’apostolo non può portare avanti la missione e compiere la volontà di Colui che lo ha inviato. C’è, dunque, una vita carnale che si sostiene con il cibo materiale, entrambi vincolati alla legge della precarietà e del deperimento, e un cibo spirituale che alimenta «la vita eterna». La vita carnale, propria dell’uomo, è caratterizzata dal limite temporale, rappresentato dalla morte, e da quello della povertà che dà la misura della sua insufficienza. L’uomo interpreta il suo cammino esistenziale come lo sforzo a spostare sempre più in avanti il proprio limite con l’illusione di superarlo definitivamente, senza mai riuscirci con le sue forze.

La gente si è industriata sul come raggiungere Gesù nella speranza di ricevere da lui ancora pane. Ora egli viene incontro al loro desiderio rivelando, però, che essi sono fatti per un cibo diverso da quello a cui sono abituati e che lui, in quanto «Figlio dell’uomo», può dare perché proprio per questo ha ricevuto la missione da Dio Padre. Gesù, come Mosè, si presenta come fratello, figlio dello stesso Padre, ma al contempo rivela la loro vocazione della quale lui è a servizio perché ha ricevuto da Dio il sigillo, ovvero l’autorità di mettere in pratica la sua volontà. La moltiplicazione dei pani e dei pesci è il segno che accredita Gesù come il Messia. Egli, però, corregge il tiro rispetto alle attese politiche della gente; la sua missione è di un’altra natura, che supera anche quella di Mosè. In altri termini, Gesù invita a non vivere per sé stessi ma a cercare la volontà di Dio operando il bene, ovvero facendo le opere di Dio come le ha fatte lui, che ha riconosciuto nel giovinetto e nella sua offerta la via che Dio gli indicava per servire la moltitudine dei fratelli.

La domanda della gente mostra che stanno seguendo Gesù nel discorso: «Cosa dobbiamo fare per compiere come te le opere di Dio?» Forse da Gesù, a cui attribuiscono la stessa autorità e funzione di Mosè, si aspettano un altro decalogo, un codice di comportamento. Essi identificano «le opere di Dio» con la Legge declinata in comandamenti, norme e precetti. Gesù replica correggendo ancora una volta il tiro. Egli non è il profeta-sapiente capace di interpretare la volontà di Dio e di comunicarla perché la si attui in maniera meccanica. L’obbedienza a Dio non è mera esecuzione di precetti. Dalle «opere di Dio» si passa all’«opera di Dio». Essa è la creazione e la redenzione in vista della santificazione. Come la creazione, anche la redenzione è in funzione della vita dell’uomo. Tutto, sia la creazione che la storia, è annuncio della volontà di Dio. L’uomo cosa può fare nella sua povertà? Credere in colui che Dio Padre ha inviato (donato). Prima del fare, viene l’essere. Credere in qualcuno significa instaurare una relazione che però non si fonda sull’interesse utilitaristico ma sull’amore. Credere in qualcuno significa progredire nell’itinerario di maturazione umana ritmato dalle tappe dell’affettività: dall’utilità, all’affinità per giungere all’oblatività. Il mio essere in relazione all’altro è dato dalla conoscenza che ho di lui e dal valore che gli attribuisco: strumentale e funzionale, corrispondente e somigliante, come dono da accogliere e curare per far crescere.

La gente comprende che Gesù, parlando di sé, si sta ponendo su un piano superiore a quello dei profeti d’Israele, e di Mosè stesso, accreditandosi un’autorità divina per essere messaggero di un annuncio e di una proposta di vita che supera le umane aspettative. Il pane ricevuto è un segno che rivela il dono di Dio e il fatto che Dio stesso si fa dono. Il pane, dunque, rivela e comunica la vita di Dio. Mosè è stato per gli Israeliti un intermediario perché per suo mezzo essi hanno ricevuto da Dio la Legge e il nutrimento necessario per sopravvivere nel deserto. Tuttavia, Mosè è anche il legislatore perché ha dato al popolo i cinque libri della Torà e due comandamenti da cui dipende tutta la tradizione d’Israele. Mosè, in obbedienza alla parola di Dio, ha compiuto dei segni la cui funzione era anche quella di accrescere nel popolo la fiducia nel suo inviato. La gente chiede un segno che permetta loro di riconoscerlo come uomo di Dio e che li renda capaci di riporre in lui fiducia sufficiente per essere suoi discepoli. La fede non nasce in maniera spontanea ma è generata dal segno. La citazione a senso di Es 16,4 è il richiamo all’evento pasquale che non si riduce al solo passaggio del Mar Rosso ma che abbraccia tutto il cammino fatto nel deserto fino alla terra promessa. Israele ha potuto attraversare il deserto e giungere alla meta perché è stato nutrito con la manna. La gente conosce la Scrittura, ma la interpreta secondo i criteri umani che tendono a mettere al centro il proprio io. Sullo fondo del dialogo tra Gesù e la folla c’è l’idea della giustizia retributiva secondo la quale la salvezza, che Dio opera, in qualche modo va meritata. È come se l’opera di Dio dovesse seguire come conseguenza a quella dell’uomo. Similmente la gente chiede un segno da Gesù per meritarsi la sua fiducia. La terza risposta del Maestro è introdotta nello stesso modo della prima. In quel caso Gesù parla come una persona che conosce veramente l’uomo perché il suo sguardo si fissa sul cuore, ora il Maestro parla come colui che conosce il vero senso delle Scritture perché conosce veramente il cuore di Dio, che ne è la fonte. Già il Deuteronomio accostava il pane alla Parola (Dt 8,3). La manna e la Parola vengono dal cielo perché sono un dono di Dio che si prende cura di tutti gli uomini e di tutto l’uomo con i bisogni del corpo e i desideri dello spirito. Nel linguaggio biblico la verità non è un concetto astratto ma è una realtà concreta perché è generativa. Per questo il simbolo della verità è la roccia che richiama la stabilità e la fedeltà. Il deserto che Israele ha attraversato nell’esodo è roccioso, ma proprio dalla roccia scaturì l’acqua che dissetò il popolo. Nell’esperienza del deserto, dove Israele sperimentò la sua strutturale insufficienza e povertà, Dio si rivelò come l’unico vero Dio, roccia e sorgente, colui che ama di un amore fedele e generativo. Gesù allora interpreta il passo della Torah come la rivelazione di Dio che ama di amore vero. Il dire di Gesù risente del linguaggio sapienziale che personalizza le immagini, come quella del pane, che rischiano di rimanere ingabbiate nell’ambito simbolico e ideale. L’operazione di Gesù, da vero Maestro e Sapiente, è quella di portare sul piano della relazione personale attuale la verità storica dei fatti che potrebbe rimanere intrappolata negli schemi teologici tradizionali e lontana dalla realtà concreta. La Sapienza di Dio, ovvero il suo amore per gli uomini, non è un concetto astratto o un ricordo storico lontano, ma è una persona donata dal Cielo per donare la vita. Gesù nell’omelia sul passo della Torah, citato dai suoi interlocutori attraverso il Salmo 78,24, traccia una linea che dall’esodo, nel quale Dio «crea» il suo popolo con la Parola-Sapienza, giunge fino all’oggi in cui si compie la sua opera mandando nel mondo suo Figlio. Mosè si è fatto mediatore del dono della Parola/Sapienza/Pane (Legge e manna) che oggi trova il suo pieno compimento in Gesù.

Come la Samaritana che chiede a Gesù l’acqua viva per non andare più ad attingerla al pozzo, così la gente chiede il pane di cui parla per risolvere una volta per tutte il problema della fame e del modo con cui soddisfarla. Nel racconto delle origini il lavoro è legato alla schiavitù perché è lo strumento con cui con fatica «ci si guadagna la vita». L’uomo sperimenta quanto sia insufficiente il suo sforzo e la sua opera per vivere e quanto sia decisivo l’aiuto di Dio. Per questo la gente prega Gesù, chiamandolo con l’appellativo divino di Signore, per chiedergli non più la manna, il pane dal cielo, ma il pane del cielo. La sua risposta suona come una risposta all’appello della gente: «Eccomi … io sono il pane della vita». Riecheggiando alcuni testi sapienziali (Pr 9, 1-6, Sir 24,18-21, Is 55,1-3) nei quali la Sapienza invita ad accogliere l’invito al banchetto festoso preparato da lei e nel quale essa stessa si offre come cibo, Gesù si identifica con la Sapienza, espressa nell’immagine del «pane della vita». Chi accoglie l’invito e si accosta alla mensa della Sapienza diventa suo discepolo. Tuttavia, le parole di Gesù si differenziano da Sir 24,21 in cui la Sapienza, che fa l’elogio di sé e si definisce «la madre del bell’amore e del timore, della conoscenza e della santa speranza» (v.18), afferma: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete». Il Libro del Siracide vuole affermare che chi ha incontrato il Signore non lo abbandona più perché la relazione con Lui attiva un dinamismo in cui è mantenuto sempre vivo il desiderio che non può dirsi mai del tutto soddisfatto. Gesù non contraddice il Siracide ma vuole affermare che la relazione con lui cambia la vita del discepolo che non è spinto ad agire per bisogno o per dovere ma dalla forza dell’amore che gli conferisce il pane della vita di cui si nutre. La Parola, Sapienza di Dio, pane della vita, che è Gesù, possiede una forza creatrice. Dio ha creato tutto con la Parola e grazie ad essa tutto sussiste. Gesù è il pane della vita perché è la Sapienza di Dio creatrice ed è la Parola grazie alla quale l’uomo vive perché non vive più solo per sé stesso ma fa della sua vita un dono, come il Pane della vita.

MEDITATIO

Il marchio d’infamia e il sigillo di autenticità

La pagina evangelica si apre con la ricerca di Gesù condotta dalla gente che il giorno prima era stata saziata. Una volta trovato gli rivolgono una domanda perché non capiscono cosa sia accaduto durante la notte. Anche nella prima lettura gli Israeliti, liberati dalla schiavitù egiziana, mormorano contro Mosè perché, presi dalla rabbia per la mancanza di cibo nel deserto, non comprendono cosa stia accadendo e nostalgicamente pensano a ciò che hanno lasciato.

Come Dio ascolta la mormorazione della gente e le parla rivolgendosi a Mosè, così Gesù interloquisce con la folla. Il nutrimento che Dio aveva promesso come risposta alla lamentela del popolo si è riproposto nell’evento della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci che hanno saziato una moltitudine di persone. Tuttavia, già il Signore aveva detto a Mosè che il cibo «piovuto dal cielo» aveva nelle sue intenzioni una finalità educativa. Infatti, la Sua parola e la Sua opera sciolgono le contraddizioni apparenti, che gettano Israele nella confusione, perché rivelano un Dio che si prende cura del suo popolo e vuole educarlo alla vera libertà. Dio è all’opera perché, nutrendo il suo popolo, non solo risponde al suo bisogno, ma lo educa all’obbedienza della fede, ovvero a quel dialogo attraverso il quale trovano risposta gli interrogativi sul significato degli eventi della vita. Dio non risponde solo alla domanda di cibo, ma, donando il nutrimento necessario, suscita la domanda grazie alla quale si scopre un significato ulteriore del cibo ricevuto. L’opera di Dio funge da modello per quella dell’uomo. L’opera dell’uomo è dunque finalizzata non solo a soddisfare il bisogno ma ad essere un uomo nuovo che, come dice Paolo agli Efesini, non si corrompe. Darsi da fare per il cibo che non perisce ma che dura per la vita eterna significa essere non come la manna del deserto, che dopo un giorno si corrompeva, ma come Gesù che è il pane donato da Dio perché chi ne mangia non si lasci snaturare dal peccato e guidare dall’istinto.

Ciò che fa della fede un cammino di vita è la motivazione per cui lo si intraprende. Da qui l’invito a non ricorrere a Dio solo nel momento del bisogno, spinti dalla disperazione, ma a cogliere l’occasione che ci viene offerta di lasciarci trasformare in Cristo mediante il cibo che Lui ci dona. Quando celebriamo i sacramenti, l’eucaristia in maniera particolare, andiamo da Dio per nutrirci della sua Parola e del suo Corpo. Domandandoci, come gli Israeliti: «Che cosa è?» ci apriamo ad accogliere nel segno del pane e del vino consacrati Dio stesso che ci fa figli suoi e ci dona la sua vita affinché possiamo amare come Lui ci ama.

Il pane dal cielo è gratuito e non si può comprare, lo si riceve con gratitudine e non lo si può accumulare con avidità, lo si deve condividere e non rivendere. Queste caratteristiche rivelano la novità operata da Dio e che l’uomo assume come impegno. Chi ha sperimentato la provvidenza di Dio che ha saziato il corpo deve compiere un passaggio per cercare e ricevere il nutrimento che garantisce la vita eterna. Dire «vita eterna» significa dire la vita stessa di Dio che supera la dimensione biologica e non s’identifica con il benessere psichico ma che si rivela nella vita rinnovata dall’amore di Dio.

Il marchio d’infamia segna la nostra condizione di schiavi del maligno e, come tali, siamo indotti a ragionare secondo la logica egoistica, materialistica ed utilitaristica. L’incontro con Gesù, e il partecipare alla sua mensa, invece trasforma il segno della nostra schiavitù in sigillo di autenticità che attesta, con le opere di misericordia, che siamo veramente figli di Dio. 

ORATIO

Signore Gesù,

pane di Dio e pane della vita,

poni su di me il sigillo

che mi conferisce il potere

di diventare Figlio di Dio.

Guidami nelle contraddizioni della vita

a riconoscere la mano di Dio

che mi educa, tra prove e sofferenze,

ad essere fermento di novità

nel mondo in cui vivo

corrotto dall’egoismo e dall’avidità di potere.

Nutrimi con la tua Parola

e sostienimi con il tuo Corpo

nel cammino della fede

perché non mi lasci vincere

dalla rabbia per le ingiustizie,

 dalla paura delle insidie tramate alle mie spalle,

dalla tristezza causata dal senso

di solitudine e di abbandono.

Rendi la mia fede sempre più forte

per fronteggiare i pericoli interiori della tentazione,

sanare le ferite del peccato

e rispondere alla tua chiamata

a seguirti sulla via della croce e così abitare per sempre con Te nella vita eterna. Amen.