L’ultima parola – Sabato della XIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

L’ultima parola – Sabato della XIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

12 Luglio 2024 0 Di Pasquale Giordano

Sabato della XIV settimana del Tempo Ordinario (Anno pari)

Is 6,1-8   Sal 92 

O Padre, che nell’umiliazione del tuo Figlio

hai risollevato l’umanità dalla sua caduta,

dona ai tuoi fedeli una gioia santa,

perché, liberati dalla schiavitù del peccato,

godano della felicità eterna.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,

e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.

Dal libro del profeta Isaìa Is 6,1-8

Uomo dalle labbra impure io sono eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti.

Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo:

«Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!

Tutta la terra è piena della sua gloria».

Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi:

«Ohimè! Io sono perduto,

perché un uomo dalle labbra impure io sono

e in mezzo a un popolo

dalle labbra impure io abito;

eppure i miei occhi hanno visto

il re, il Signore degli eserciti».

Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse:

«Ecco, questo ha toccato le tue labbra,

perciò è scomparsa la tua colpa

e il tuo peccato è espiato».

Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».

Vocazione, consacrazione e missione di Isaia

Isaia narra l’origine della sua missione profetica. Non sappiamo quasi nulla della vita di Isaia, ma è chiaro che egli non era un profeta “professionista” ma che la profezia nasceva direttamente dal rapporto con Dio che si rivela. La prima parte del racconto è una narrazione di teofania alla quale l’uomo reagisce con timore riconoscendosi peccatore. La visione non significa la comprensione di tutto il mistero di Dio del quale l’uomo può cogliere solamente le estremità e che, tuttavia, lasciano intuire una grandezza che supera ogni umana capacità umana di misurazione. Isaia replica con timore perché si riconosce indegno di essere alla presenza di Dio la cui gloria è talmente grande da essere insostenibile il suo peso (in ebraico qabod significa anche peso/pesante).

Alla visione, nella quale Dio manifesta la sua gloria e l’uomo riconosce la sua miseria, segue il gesto simbolico del serafino che è la figura angelica legata al culto. Il serafino rappresenta Dio che colma la distanza tra la divinità e l’umanità, purifica le labbra, porta del cuore di chi si riconosce bisognoso di perdono, ovvero lo rende capace di ascoltare, custodire e annunciare la Parola. Dio libera il timore dalla paura con l’amore che risana, rianima e costituisce i messaggeri del suo vangelo. L’incontro con Dio è il passaggio da fuoco del suo amore che da una parte distrugge impurità e dall’altra rende più forti e resistenti.

La domanda di Dio non è retorica ma afferma che tra il Signore e Isaia si è stabilita una relazione dialogica intima tale che Egli condivide il progetto con il suo servo Isaia. Il profeta ora non si sente più schiacciato da una volontà superiore che si impone e che richiede obbedienza rassegnata, ma avverte di essere coinvolto in un progetto bello perché è un mistero d’amore la cui realizzazione passa anche attraverso la sua responsabilità, che egli si assume completamente. La missione di Isaia inizia con un amen del profeta con il quale si lascia toccare da Dio e che diventa la bussola che orienta le parole e le azioni in favore del suo popolo. L’accoglienza umile e grata della Parola di Dio, che si fa prossimo superando le barriere del peccato, permette al profeta di andare incontro agli uomini non per cercare il loro favore ma per fare la volontà di Dio e collaborare ad instaurare la sua signoria.

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 10,24-33

Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:

«Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!

Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.

E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.

Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!

Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

L’ultima parola

Cuore della fede cristiana è la Pasqua nella quale Cristo, con la sua morte e risurrezione, vince il peccato e la morte. La prova è parte integrante del cammino esistenziale dell’uomo ma davanti agli attacchi ingiusti dei malvagi la fede del cristiano entra in crisi e la paura che l’ultima parola sia affidata alla morte rischia di prendere il sopravvento. Per tre volte Gesù rassicura: non abbiate paura. La paura si combatte non guardandola in faccia e non prestando ascolto a ciò che grida. In questi frangenti il discepolo deve alzare gli occhi verso il suo maestro e il servo fissare lo sguardo sull’esempio del suo signore, per imparare a relativizzare i problemi e ad amplificare ciò che lo Spirito Santo suggerisce nel segreto del suo cuore. Gesù è l’inviato di Dio che non è riconosciuto tale dagli uomini accecati dalla superbia e dall’avidità. Non per questo si arrende e rinuncia a far sentire la sua voce e a far valere la ragione dell’amore. Seguendo le orme del Maestro il discepolo di Cristo deve mettere in conto il rifiuto e il fallimento, e dall’altra parte, non deve tirarsi indietro nell’esercizio della carità per paura o perché insidiato dai sensi di colpa. Nel mondo secolarizzato, nel quale domina la legge dell’individualismo, la carità viene fraintesa e svalutata perché la verità sull’uomo viene manipolata. Gesù, che non ha mai discriminato nessuno, viene accusato ingiustamente di essere un accolito di satana o addirittura il capo dei demoni. Anche se il disprezzo del bene fatto e il travisamento della realtà feriscono, Gesù insegna a non perdere di vista il fine della propria vita. Riconoscere Gesù significa scegliere di seguirlo sulla via della croce, strada sulla quale si semina il bene piangendo, nella certezza di ritornare nel tempo del frutto a raccoglierlo nella gioia. Credere vuol dire imitare Gesù fino alla fine, fino al momento nel quale, messa a tacere ogni accusa, il Padre pronuncerà l’ultima parola e, sulla scorta della presentazione di Gesù, ognuno riceverà la ricompensa in base alla fedeltà con la quale ha testimoniato la carità.

Signore Gesù, prima e ultima parola del Padre, consolami col tuo Spirito nel momento della prova, quando mi assale il dubbio di aver fallito tutto nella vita. Confermami nel tuo amore come tu quando eri insultato, calunniato e dileggiato trovavi rifugio nella preghiera e conforto nella voce del Padre. Aiutami a vincere la paura che mi atterrisce e ad alzare lo sguardo dai miei errori e dalle minacce per fissarlo sulle orme che tu hai lasciato sulla via della croce. Aiutami a riconoscerla come la mia strada maestra e a percorrerla fino in fondo perché, giunto alla meta, anche io possa sentirmi chiamare servo buono e fedele ed essere partecipe della gioia dei redenti.