L’incredibile potenza di Dio abita nella credibile debolezza dell’uomo – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – Lectio divina
Ez 2,2-5 Sal 122 2Cor 12,7-10
O Padre, fonte della luce,
vinci l’incredulità dei nostri cuori,
perché riconosciamo la tua gloria nell’umiliazione del tuo Figlio,
e nella nostra debolezza
sperimentiamo la potenza della sua risurrezione.
Egli è Dio, e vive e regna con te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Dal libro del profeta Ezechièle Ez 2,2-5
Sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro.
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
La missione eroica del profeta negli «inferi»
Il profeta Ezechiele viene deportato insieme a molti Israeliti in terra di Babilonia in seguito all’invasione dell’esercito babilonese sceso da nord come risposta alla ribellione del vassallo regno di Giuda. Molti erano stati gli oracoli di Geremia che denunciavano le ingiustizie perpetrate a danno dei più poveri all’ombra di una religiosità pagana nei fatti e solamente formalmente fedele custode delle tradizioni. La ribellione degli Israeliti era un atto di disobbedienza all’autorità babilonese ma anche di emancipazione dalla sovranità di Dio nel vano tentativo di prenderne il posto. Il legittimo anelito alla libertà e all’indipendenza nascondeva il diabolico proposito di misconoscere l’autorità divina e il valore dogmatico della sua parola. Fondamentalmente la resistenza nasce dal non riconoscersi più figli di un Dio che è percepito come despota e non come Padre. Il fatto di essersi allontanati dalla via dei comandamenti e di aver rotto l’alleanza con il Signore ha condotto gli Israeliti a seguire altri modelli di vita e a rendersi sordi agli appelli di Dio. La persecuzione dei profeti era il tentativo di mettere a tacere la parola di Dio ma ha avuto come effetto quello di creare un baratro di silenzio nel quale ogni velleità umana e caduta. La terra d’esilio è il fondo degli inferi toccato da Israele nel quale Dio è presente mediante il suo profeta. Ascoltino o non ascoltino, Ezechiele è il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Egli non li ha abbandonati al loro destino e all’estinzione ma, rimanendo fedele al suo amore, come un padre amorevole e un pastore premuroso va in cerca di chi è perduto per riportarlo in vita. Dio non è estraneo al dolore dell’uomo ma se ne fa partecipe affinché esso possa essere fecondo per una vera conversione di vita.
Salmo responsoriale Sal 122
I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 2Cor 12,7-10
Mi vanterò delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
La sofferenza per Cristo è il sigillo di autenticità della profezia
Anche Paolo, apostolo e profeta di Cristo, ha subito molte persecuzioni da parte dei pagani ma soprattutto da coloro che erano Israeliti come lui. L’esperienza della sofferenza era letta dai suoi detrattori, che ragionavano secondo la logica della giustizia retributiva, come il segno della disapprovazione divina e la punizione adatta per il falso profeta. D’altronde, lo stesso Saulo, prima di incontrare il Crocifisso risorto considerava Gesù un malfattore e proprio a motivo della sua morte ignominiosa. Dunque, il persecutore dei cristiani diventa un cristiano perseguitato da coloro che invece avrebbero dovuto riconoscere nella sua azione missionaria la mano di Dio. Paolo è un vero profeta perché la parola della Croce, attraverso cui Dio ha rivelato il suo amore a tutti gli uomini, giusti e ingiusti, cattivi e buoni, Giudei e pagani, si rivela nella sua carne ferita dalle umiliazioni e ingiustizie. Esse non sono lo stigma del falso profeta ma il sigillo di autenticità della sua missione apostolica. Egli è consapevole che la rivelazione è il processo attraverso il quale Dio conforma il profeta a suo Figlio Gesù. La sofferenza, lungi dall’essere la punizione di Dio per essersi autoproclamato suo profeta, ha una funzione pedagogica perché permette all’apostolo di rimanere davanti al Signore con la postura del servo obbediente che viene elevato alla dignità di figlio. Solo questa dimensione filiale, che è dono di Dio, determina l’ottica per la quale tutti gli altri sono fratelli con cui condividere la gioia della fede e non concorrenti ai quali strappare il trofeo della primazia.
+ Dal Vangelo secondo Marco (Mc 6,1-6)
Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
LECTIO
Con questa pericope si chiude il secondo atto del racconto evangelico di Marco che è caratterizzato dalla costituzione della comunità dei Dodici apostoli, i quali formano la nuova famiglia di Gesù, dall’insegnamento in parabole, da manifestazioni di autorità che suscitano gli interrogativi nel cuore di chi lo segue più da vicino e da tre atti di liberazione. Proprio essi sono il contesto immediato della nostra pericope. In particolare, nel racconto che vede il capo della sinagoga Giaro e la donna emorroissa interloquire col Maestro la fede funge da filo rosso: grazie ad essa si attiva la potenza vitale di Gesù che restituisce alla donna la possibilità di essere feconda e vivere relazioni sane con tutti. La comunicazione, intesa quale canale attraverso cui passa la sapienza e la grazia di Dio, si instaura con coloro che, accogliendo nell’intimo la Parola che interpella, scelgono di stare con Gesù e di partecipare alla sua missione. Essi, quanto più sono condotti verso il cuore del mistero di Gesù, tanto più toccano con mano il rischio che si corre nell’aderire alla fede: incomprensioni, astio, pregiudizio, invidia. Sono esse le tempeste della vita che mettono in crisi la relazione con Dio, avvertito assente. Gesù risponde a chiunque lo invoca perché nella preghiera, che spesso nasce da un cuore ferito, c’è una forma di contatto e un desiderio di comunicazione e relazione. I discepoli fanno anche esperienza di come il rapporto con Gesù è complicato da ragionamenti troppo umani che rendono sterile la relazione con lui e inefficace la sua opera. Il chiacchiericcio diffamatorio su Gesù nasce dall’elaborazione mentale del sentito dire. Il tutto diventa pregiudizio che innalza muri d’incomunicabilità. La narrazione di Marco va letta innanzitutto dal punto di vista delle dinamiche umane che caratterizzano ogni forma di comunità, anche quella ecclesiale. Il secondo evangelista punta molto sulle relazioni umane nelle quali Gesù è pienamente inserito. L’identità profetica, percepita dai discepoli e manifestata in parole azioni dallo stesso Gesù, è la categoria mediante la quale l’evangelista legge la prima parte della sua missione. Inserendosi a pieno titolo nella tradizione profetica d’Israele, Gesù, quale uomo di Dio, partecipa al dramma del Suo amore offerto e rifiutato.
La pericope liturgica si apre con la presentazione del Maestro che evangelizza nella sinagoga nel suo paese natio che aveva lasciato per iniziare la sua missione dopo essere stato battezzato da Giovanni. Come ogni Israelita, egli ha la facoltà di intervenire nella liturgia sinagogale del sabato. La sua parola ha un valore aggiunto rispetto a quella degli altri. Il suo è un insegnamento perché viene da Dio; proprio per questo gli episodi della tempesta sedata e della liberazione dell’indemoniato mettono in risalto che la parola di Gesù è un comando; non è l’imposizione di un autoritarismo ma è l’offerta dell’autorità che promuove la pace e la dignità della persona. Gesù non torna a casa per una visita privata ma seguito dai suoi discepoli. Vi si potrebbe leggere la presentazione della comunità di Gesù ai suoi. Essi erano tornati “con la coda tra le gambe» e senza aver incontrato il figlio/fratello. Ora Gesù, sfidando la diffidenza e il pregiudizio, va verso i suoi non per convincerli con gesti prodigiosi ma per portare loro l’annuncio del vangelo di Dio. Anche per loro è offerta l’opportunità di vedere il Regno di Dio e sperimentare la potenza del Suo amore che cambia il cuore. Ad essi viene chiesto di trasformare la mente per aderire alla proposta di vita fatta da Gesù che invita a seguirlo.
L’assemblea radunata nella sinagoga ascolta la parola che suscita stupore perché ne coglie il valore trascendente. Lo stupore è l’emozione che segnala la percezione di una presenza superiore. La meraviglia ha come oggetto la sapienza, che traspare dalle sue parole, e la potenza rivelata dalle sue opere. I conoscenti di Gesù non riescono a connettere il principio della straordinarietà della sua missione e l’ordinarietà delle sue origini, la grandezza delle sue opere e l’umiltà della sua personalità. Paradossalmente fa scandalo il fatto che Gesù non si presenti a loro come quei migranti in cerca di fortuna che, avendola fatta, ritornano ostentando la propria ricchezza. Il cuore dell’insegnamento di Gesù sta nell’immagine di Dio che si fa vicino al povero per risollevarlo dalla miseria umana, più che materiale, per irrobustire i legami familiari fondati non sulla logica dell’interesse particolare del clan ma su quella dell’amore che unisce gli sposi tra loro e i genitori con i loro figli. È il Gesù che tutti hanno conosciuto che non è cambiato, né ha sfruttato la sua fama per cambiare le sorti economiche dei parenti, a partire da sua madre.
Tornando a casa, Gesù non torna sui suoi passi ma con la sua presenza e l’insegnamento vuole orientare il cuore di chi lo ascolta verso Colui che è la sorgente della vita e di ogni bene desiderabile. Gesù insegna ad alzare gli occhi e a pregare per accogliere il dono dello Spirito di sapienza e forza come lui lo ha ricevuto nel battesimo al Giordano.
Tuttavia i suoi sembrano essere refrattari al messaggio evangelico e riluttanti all’invito a convertirsi e credere nel vangelo. L’incredulità dei Nazaretani consiste nel rifiuto della vocazione profetica di Gesù perché agli interessi della patria mondana, della parentela umana e della famiglia naturale antepone la volontà del Padre, il bene dei più piccoli e la comunione della comunità fraterna. Questo è l’orizzonte valoriale di Gesù che determina i suoi desideri, origina i suoi pensieri e orienta le sue scelte. A tutti viene annunciato il Vangelo, molti lo ascoltano ma solo pochi lo accolgono. Per essere veramente parenti di Gesù non basta ascoltarlo ma anche impegnare la propria vita perché la volontà di Dio si realizzi a partire da se stessi. Infatti, molti attendono il cambiamento della società e delle condizioni di vita ma pochi desiderano essere guariti.
L’incredulità è anche il frutto della vittoria del maligno la cui sapienza confonde la mente e la cui azione perverte il cuore. Gesù si meraviglia e riconosce nell’incredulità dei Nazaretani l’opera del demonio a cui continua ad opporre la Parola ricca di umanità e comunicatrice di speranza.
MEDITATIO
L’incredibile potenza di Dio abita nella credibile debolezza dell’uomo
Dopo che aveva lasciato Nazaret per andare al Giordano per essere battezzato dal Battista, Gesù ritorna nella sua patria, ma per l’ultima volta. Lo seguono i discepoli che hanno iniziato a formare una comunità attorno al Maestro. Essi, stando con lui, hanno avuto modo di ascoltare i suoi insegnamenti attraverso i quali Gesù ha inteso presentare in forma di parabola la logica che muove la sua missione. È lui, Parola attraverso cui Dio comunica, il seme che il Padre sparge ovunque perché tutti gli uomini possano incontrarlo e conoscerlo. La parabola del seminatore e la sua spiegazione insistono sull’accoglienza e la responsabilità di chi ascolta la Parola e ne fa esperienza nella propria vita. Nella fede della donna emorroissa e in quella di Giairo, sostenuta dall’incoraggiamento di Gesù, i discepoli riconoscono i frutti del seme della Parola seminata in essi. Al contempo loro stessi sono testimoni delle difficoltà che incontra la fede soprattutto nei momenti più critici della vita, quando si attraversano serie difficoltà e sembra di essere perduti e abbandonati al proprio destino.
La fede è essenzialmente esperienza di Gesù nella quale emerge la domanda sulla sua identità, la sua origine e, quindi, sulla sua autorità. Man mano che Gesù avanza nel suo cammino si fanno più forti anche le tensioni. A fronte dei prodigi che manifestano la potenza della misericordia di Dio e la forza della fede, emergono anche le resistenze. Non sono solamente quelle dei demoni che, pur riconoscendolo, lo disprezzano e lo rifiutano, ma anche dei suoi familiari che lo giudicano negativamente, delle autorità che iniziano a pianificare la sua eliminazione, a cui si aggiunge la poca fede dei discepoli che fanno fatica a comprendere la logica che ispira Gesù nella sua missione. In definita, la tensione è tra la grandezza degli eventi e la piccolezza del soggetto protagonista. Gesù stesso nell’immagine del seme di senape ha indicato questo apparente contrasto ma che nella visione di Dio non esiste. Il regno di Dio, come il più piccolo tra tutti i semi, caduto nella terra si confonde con gli altri o addirittura viene ignorato. La piccolezza, ad un occhio disabituato a cogliere la verità e la bellezza nei piccoli particolari, è sinonimo di insignificanza. Ciò che scandalizza i conoscenti di Gesù nella sinagoga, in cui era cresciuto insieme a tutti loro, è la sua condizione sociale e umana. Può una persona così «normale» essere il depositario della sapienza di Dio e detenere un potere che è solamente divino? Non si può credere stando a tavolino sui libri o semplicemente facendo qualcosa di buono. Chi si pone queste domande non è gente cattiva, ma persone che non transitano dalla meraviglia dell’incredibile alla fede in Colui che si rende credibile attraverso la sua parola e i suoi gesti, ma soprattutto mediante l’offerta della sua vita sulla croce. La Parola ascoltata e i segni visti non bastano a compiere un passo in avanti nella fede senza fare esperienza diretta, nella propria carne, della misericordia di Dio che si manifesta pienamente nella debolezza umana. Gesù, come il profeta Ezechiele, è consapevole di essere segno che Dio manda in mezzo ad una generazione dal cuore indurito per affermare la fedeltà del suo amore e l’immutabilità del suo impegno a favore dell’uomo. Ad un livello superiore potremmo riconoscere un’altra tensione, quella che si crea tra la testardaggine dell’amore di Dio, che vuole rimanere in contatto con l’uomo, e la durezza del cuore umano che fa fatica ad accoglierlo e farlo fruttificare. Ma quando questa tensione si scioglie, come testimonia Paolo nella seconda lettura, allora tutto acquista il suo senso pieno. Ciò che appare incredibile, impossibile da accettare, diventa il terreno nel quale la grazia di Dio è accettata e il seme della Parola fruttifica nell’amore fraterno. Ciò che agli occhi di molti appare insignificante, fallimentare, la fede invece ne fa lo spazio nel quale Dio può operare meraviglie trasformando la vita in un giardino fiorito e pieno di frutti d’amore.
La tristezza, dovuta alla mancata accoglienza e alle resistenze oppostegli dai conoscenti divenuti avversari, non si trasforma in minaccia o aggressività perché, con l’aiuto dello Spirito Santo, l’amore, disegnando i contorni delle mancanze affettive, circoscrive anche lo spazio della delusione e contiene la rabbia che da essa scaturisce. Il senso della vita non dipende dal consenso, ma dalla scelta di rimanere nell’impegno di amare fino alla fine. Il senso di vuoto e d’impotenza è colmato dalla consolazione del Padre che volge verso il bene anche esperienze di sofferenza che feriscono. A volte ci sentiamo a pezzi e feriti da più parti, ma la Parola di Dio ci rivela che proprio in quei momenti, se teniamo accesa la luce della fede nel Signore e alimentiamo nel cuore il desiderio della carità, esse si irradiano attorno a noi attraverso il nostro corpo pur segnato dalla sofferenza.
ORATIO
Signore Gesù,
grande nell’amore,
Ti ringrazio perché
anche quando non ti cerco
Tu ti fai prossimo a me,
anche quando io non ti vedo
Tu mi guardi,
anche quando non ti sento
Tu mi ascolti,
anche quando non ti seguo,
Tu mi sei compagno.
Signore Gesù,
origine e compimento della speranza,
tieni accesa nel mio cuore
la luce della fede
perché essa possa irradiarsi
attraverso il mio sguardo colmo di lacrime
di gioia o di tristezza,
mediante le mie parole
spoglie di orgoglio e ricche di speranza,
per mezzo delle mie mani,
deboli e nude,
ma aperte per distribuire tenerezza e
spargere con generosità
il seme della fraternità.
Signore Gesù,
Dio in mezzo a noi,
aiutami a superare
le barriere del pregiudizio e della diffidenza,
sostieni i miei sforzi per non arrendermi
davanti all’ingratitudine e alla cattiveria,
ispira desideri e pensieri
conformi alla volontà del Padre,
donami la tua umiltà
affinché nella mia umana debolezza
si riveli la tua divina potenza
che sana e salva. Amen.