Da Eva a Maria. Profili di donne della Bibbia
Donna – Eva
(Gen 1-4)
Le prime pagine della Bibbia raccontano l’origine dell’umanità. Chi parla non è un cronista che descrive fatti a cui lui ha assistito. Il narratore è la comunità credente che rilegge la propria storia alla luce della fede, ovvero del suo rapporto con il suo Dio che illumina e dà senso alla relazione con sé stesso e con gli altri. Come ogni racconto che si rispetti, anche quello dell’origine ha dei personaggi inseriti in una trama di relazioni. Il lettore della Bibbia si rende subito conto che il racconto è fatto a più voci perché i narratori sono almeno due, quanti sono i resoconti dell’evento della creazione. Questa pluralità di voci suggerisce la prima evidenza che si manifesta agli occhi del sapiente: la realtà non è unidimensionale ma pluridimensionale. Essa non può essere riassunta in qualche modo senza privarla di significato e valore. Questo spiega anche il fatto che il nuovo Testamento si apra con quattro forme di un unico Vangelo. Il credente è il saggio che è sempre in ricerca della verità lasciandosi guidare dalla domanda: «Chi è Dio?». Nel suo cammino di ricerca sente emergere anche il desiderio di conoscere sé stesso, e si domanda: «cosa è l’uomo?». La narrazione non è la risposta definitiva alle domande ma rappresenta una luce che aiuta a percorrere i sentieri della ricerca nel mistero a partire dalla propria esperienza. La pluralità delle narrazioni nasce dalla evidenza del fatto che la realtà è ambigua perché in essa si trova tutto e il suo contrario: luce e tenebre, amore e odio, bellezza e bruttezza, armonia e disordine, fragilità e forza, santità e peccato, il maschile e il femminile, il celeste e il terrestre, il bene e il male. L’intelligenza della fede non si ferma a questa considerazione ma va oltre spinta da una forza interiore che il credente chiama Spirito Santo. È l’artigiano della comunione che insegna all’uomo l’arte dell’amore.
Fatta questa premessa ci accostiamo alle prime pagine della Bibbia per leggere i racconti delle origini ponendoci la domanda: «Chi è Eva?».
«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). Sebbene sia creato a partire dalla terra e fatto per essa, l’essere umano non è semplicemente figlio della terra, né è il risultato del caso, poiché ha la sua origine e la sua vocazione nel progetto amoroso di Dio, creatore e salvatore. L’azione del plasmare l’uomo con la polvere del suolo sottolinea la sua fragilità, come quella della terra. Tuttavia, all’umanità è conferita una dignità altissima, come quella di Dio, perché Egli soffia il suo alito di vita. Per cui l’umanità ha un corpo, che lo accomuna agli animali – anch’essi plasmati dal suolo (Gn 2,19) – ma che è «spiritualizzato» perché in esso Dio infonde il suo Spirito. La vita di Dio entra nel corpo dell’umanità che diventa vivente. L’umanità è creatura e non Creatore perché non si fa da sé. Gen 1,27 afferma due volte che l’umanità è creata da Dio a sua immagine. Il maschio e la femmina, sia individualmente sia in relazione sono immagine di Dio. La dualità maschile-femminile caratterizza anche gli animali, ma ciò che rende l’umanità somigliante a Dio è la capacità di dare vita nell’amore e per amore. L’umanità non è solo il risultato di un’azione meccanica, ma di una relazione attraverso la quale avviene un dono spirituale che genera vita. Questo dono spirituale, che la narrazione chiama «spirito di vita», è l’amore di Dio che fa della creazione la manifestazione della sua gratuita benevolenza. Ogni uomo può leggere nei racconti della Genesi la narrazione della propria origine come creatura, voluta e amata dal Creatore, il cui agire diventa modello della sua vita.
Nel secondo racconto della creazione si ribadisce l’idea che l’umanità è destinataria del dono di Dio, rappresentato come un agricoltore che elargisce i beni della terra, necessari e utili per la vita. Tutti i frutti sono buoni da mangiare e a disposizione dell’umanità. Tuttavia, Dio pone un limite che riguarda il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quest’unico divieto non restringe il campo di libertà dell’uomo ma suggerisce il fatto che essa può essere esercitata con frutto nella misura in cui si accetta il limite che è proprio dell’essere creatura.
Dio evidenzia un altro limite, inteso come “difetto” o mancanza oppure come imperfezione: «Non è bene che l’uomo sia solo». L’espressione avverbiale ebraica, che è tradotta con «solo», quando è attribuita a Dio indica la sua unicità, ma quando è riferita all’uomo allude all’isolamento o impotente solitudine. Dunque, Dio interviene affinché l’uomo possa essere pienamente compiuto. Per questo offre all’uomo un «aiuto» o, diremmo meglio, un alleato che «gli stia di fronte». Con questa espressione si vuole indicare una realtà con la quale l’uomo possa entrare in una relazione di parità e reciprocità. All’uomo è affidato il compito di coltivare la terra e renderla feconda di frutti. È un dato di fatto che l’uomo non potrebbe fare tutto da sé ma ha bisogno di un aiuto per portare a termine il suo lavoro. Tuttavia, la felicità dell’uomo non è piena solamente attraverso il lavoro coadiuvato dagli animali che Dio pone al suo servizio. Per questa ragione Dio crea la donna.
La bontà della creazione coincide con il superamento della “solitudine”, e questo superamento avviene nell’atto dell’accoglienza dell’altro, per amore.
«Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo (’ādām), che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo (’ādām), una donna (’iššāh) e la condusse all’uomo (’ādām)» (Gen 2, 21-22).
Due sono le azioni attribuite a Dio in questo racconto dalla evidente valenza simbolica: la formazione della donna e la conduzione verso Adam. Il fine di questa narrazione non sembra quello di giustificare la precedenza o superiorità dell’uomo sulla donna. Infatti, fino a questo punto col termine ’ādām si è inteso parlare dell’umanità ovvero del genere umano. L’azione di Dio avviene nella incoscienza o non-conoscenza dell’uomo. La differenza di genere, come quella tra il bene e il male, non è soggetta alla volontà dell’uomo. L’origine della differenza non è nell’uomo, ma in Dio. Egli è all’origine dell’umanità, sia nella versione maschile sia in quella femminile. Il narratore identifica col nome di ’iššāh la donna, dando, per così dire voce all’opera di Dio che realizza il suo progetto. ’iššāh è l’alleato necessario per ’ādām e che non era stato trovato tra gli animali.
Il testo ebraico veicola l’idea che Dio «sceglie» o «elegge» (toglie) una «parte» o «fianco» da cui forma la donna. In tal senso la donna è presentata come la «parte eletta» che Dio pone a fianco dell’uomo come suo alleato.
«Allora l’uomo (’ādām) disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna (’iššāh), perché dall’uomo (’îš) è stata tolta» (Gen 2, 23).
Il narratore lascia la parola ad Adamo che riconosce il nome di chi gli sta di fronte. Adamo chiama l’altro con lo stesso nome usato dal narratore che, a sua volta, rivela il pensiero di Dio. Nel nome ’iššāh, donna, riecheggia sulla bocca di Adamo la parola di Dio. Al contempo, egli riconosce sé stesso come ’îš. Adamo, stando di fronte alla donna, si riconosce uomo (’îš).
Come ’ādām è formato con ’ădāmāh, ossia la polvere del suolo (Gen 2,7), così ’iššāh è formato dello stesso “materiale” di ’îš. Il racconto vuole sottolineare la loro radicale somiglianza e sollecitare a scoprire il bene spirituale del (reciproco) riconoscimento, che é principio di comunione d’amore e appello a diventare «una sola carne».
«Per questo l’uomo (’îš) lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie (’iššāh), e saranno un’unica carne» (Gen 2,24).
La parola torna al narratore che si concede una riflessione sapienziale da cui trae una norma universale. Il lasciare il padre e la madre richiama l’atto con il quale Dio crea separando. Similmente la vita dell’uomo è andare incontro all’altro riconoscendosi reciprocamente come un dono di Dio. L’incontro diventa possibile nella misura in cui si lascia la realtà da cui si proviene per «aderire» all’altro e «formare un’unica carne» La relazione di coppia non dovrà esprimersi come una “fusione” che annienti la specificità propria di ognuno dei coniugi. Là dove il testo biblico dice che i due «saranno un’unica carne» (Gen 2,24), si deve intendere che nel congiungimento carnale è dato agli sposi un segno del loro amore totale, esclusivo, duraturo e inscindibile.
Non è la solitudine del maschio, ma quella dell’essere umano ad essere soccorsa, mediante la creazione di uomo e donna. Nella relazione uomo-donna l’umanità apprende che c’è una unicità sterile, che è male, e una unità feconda che è bene. L’essere umano è unico, come Dio, perché non è riproducibile come fosse il prodotto di un lavoro. Tuttavia, questa unicità, non viene mortificata dalla presenza dell’altro, ma, al contrario, viene portata a compimento nella relazione feconda che fa dell’uomo e della donna, insieme, il principio di una nuova.
C’è una connessione tra la norma universale enunciata dal locutore e il comando che Dio ha dato ad ’ādām: «“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”» (Gen 2, 16-17). Entrambi i comandi appaiono come un’imposizione dall’alto e dall’altro e con una medesima struttura, fatta di un comando positivo e uno negativo. Infatti, alla concessione di mangiare i frutti di tutti gli alberi del giardino corrisponde l’indicazione data all’uomo di unirsi a sua moglie; similmente, il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male è associato al dovere di lasciare il padre e la madre. Accostando i due comandi ci accorgiamo che il racconto instaura un rapporto tra il cibo e la relazione personale. Il cibo è dato come nutrimento necessario per vivere. Non ci sono cibi che fanno bene e altri che fanno male, ma tutti i frutti del giardino sono buoni. Perché allora il divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male? Il divieto ha lo scopo di educare l’istintiva tendenza all’avidità, ovvero alla bramosia di avere tutto per sé. La fame è l’istinto che rende l’uomo consapevole di essere mancante. Di conseguenza colma il vuoto col mangiare. Tuttavia, l’uomo non può agire semplicemente seguendo il proprio istinto che di per sé è senza limiti. Il divieto è dunque un limite al proprio istinto affinché non si diventi dipendente da esso. Se tutti gli alberi producono frutti buoni non significa che tutti gli alberi sono uguali. Il divieto è un criterio discernimento dato all’uomo perché non si confonda nel giudizio e impari a conoscere il bene e il male. Rispettare il divieto, anche se non si comprende fino in fondo il suo significato, significa avere la consapevolezza di essere creatura destinataria di un dono offerto da colui che riconosco essere Creatore, datore di ogni bene, il più grande dei quali è la vita. La morte è la conseguenza della trasgressione del comando e il fallimento del progetto di Dio per l’uomo. L’obbedienza è garanzia di pace, intesa come compimento della vita, mentre la disobbedienza è peccato perché rappresenta il fallimento del progetto di Dio e il venir meno del bene dell’uomo. Rispettando il comando di Dio l’esistenza diventa pro-esistenza perché nell’obbedienza accade l’amore che rende feconda la relazione. L’obbedienza al comando diventa via di accesso alla conoscenza di sé secondo Dio, ovvero adesione alla sua volontà. Rispettare il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male e attuare il comandamento negativo di lasciare il padre e la madre significa rinunciare alla propria volontà di potenza e determinazione autoreferenziale. Se facendo il bene si conosce il bene e facendo il male si conosce il male, ne consegue che l’obbedienza è il bene perché porta vita e la disobbedienza è il male inquanto causa di morte. Attraverso l’obbedienza l’uomo mette in pratica la benedizione divina e sperimenta il bene inteso come il progetto di vita ideato da Dio. La disobbedienza rivela all’uomo la conseguenza di separarsi da Dio allontanandosi da Lui. Lasciare la madre e il padre non significa abbandonarli o rinnegarli ma rinunciare ad avere nei loro confronti un atteggiamento dominante che ne annulla il valore. Lasciare il padre e la madre non è in contraddizione con il comandamento dell’onorarli, ma è la condizione per metterlo in pratica. Alla rinuncia si associa l’adesione. Rinunciare a mangiare il frutto proibito equivale a rispettare Dio in quanto origine della vita, come lo sono il padre e la madre. Lasciarli, allora, significa avere con loro un rapporto di riconoscenza e gratitudine tale che il dono da essi ricevuto diviene dono per l’altro. Nella misura in cui è viva la coscienza di essere frutto di un dono d’amore maggiormente si matura la consapevolezza di voler essere un dono per l’altro.
In Gen 2 il protagonista principale è ’ādām/’îš, mentre all’inizio di Gen 3 è ’iššāh. L’uomo e la donna erano nudi e non provavano vergogna (Gen 2,25). La nudità è sinonimo di vulnerabilità. La condizione comune dell’uomo e della donna non è vissuta da loro con la paura che porta a fuggire dall’altro per nascondersi e difendersi. Nel nuovo capitolo del racconto si mette in scena l’incontro e il dialogo tra il serpente e la donna. I due hanno in comune il fatto di essere creature di Dio. Del serpente si dice che è la più astuta tra le creature. Essa si rivolge alla donna. Ci si può domandare perché è scelta la donna e non l’uomo oppure perché il serpente interloquisce solo con la donna e non anche con l’uomo. Erroneamente si può dedurre che l’astuto serpente approccia chi è più debole. In realtà l’uomo e la donna sono stati presentati entrambi nudi e quindi vulnerabili in egual misura. La risposta va cercata in quello che la donna rappresenta. Si nota un gioco di parole giacché in ebraico tra l’aggettivo «astuto» (‘ārûm) e il termine «nudi» (‘ărûmmîm) c’è una evidente assonanza. Questo potrebbe alludere al fatto che la condizione creaturale può essere vissuta seguendo “l’astuzia” o la “sapienza”. In altri termini, la donna starebbe a rappresentare la Sapienza di Dio che s’ “incarna” nell’obbedienza dell’uomo. L’astuzia descrive l’atteggiamento di chi tende a usare la conoscenza per piegare l’altro ad un suo interesse personale, mentre la sapienza caratterizza chi realizza sé stesso nel contesto di una relazione di dono. Il serpente si presenta come aiuto/alleato dell’uomo per raggiungere quella condizione di somiglianza con Dio che egli presenta come irraggiungibile se si segue la via dell’obbedienza. Per il serpente la vera sapienza è conoscere il bene e il male, ovvero possedere il potere di determinare per sé ciò che è bene e ciò che è male.
Davanti alla provocazione del serpente, che assolutizza il precetto negativo dato da Dio, la donna risponde non solo ripetendo il comando di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male ma aggiungendo il divieto persino di toccarlo. Se è vero che la donna ridimensiona la portata del divieto è anche vero che in qualche modo ne allarga l’ambito. Da qui si nota una certa scrupolosità nel voler obbedire al comando percepito più come un avvertimento che come un’opportunità di crescita. Le parole della donna rivelano che il rapporto con Dio si basa maggiormente sul senso del dovere piuttosto che su quello della riconoscenza. L’obbedienza è vissuta come sottomissione invece che come adesione fiduciosa alla volontà di Dio. Il serpente, in quanto astuto, fa leva sulla «nudità» della donna (uguale a quella dell’uomo) prospettandole la possibilità di raggiungere l’obbiettivo di essere come Dio. L’inganno sta nel far credere che il dono sia una conquista. La donna, sarà chiamata Eva, in quanto «madre dei viventi», non perché ha conquistato il privilegio di essere come Dio, «datore di vita», ma perché viene riconosciuta in lei questa capacità nella quale si manifesta la somiglianza con Dio. Il serpente si pone in alternativa a Dio e propone alla donna di seguire la sua logica piuttosto che il comando del Signore, di obbedire a lui e disobbedire a Dio. La donna, che non coglie nel comandamento di Dio la prospettiva, ma solo il divieto si lascia sedurre da chi invece sembra aprire orizzonti di libertà senza confini. L’astuto serpente convince la donna a diventare come lui, facendole dimenticare che ella è già potenzialmente come Dio. Avviene un capovolgimento della realtà e della verità. Dio, che si prende cura dell’uomo e dà i frutti da mangiare perché viva, è visto come colui che per gelosia lo priva della possibilità di conoscere il bene e il male per relegarlo alla perenne condizione di subalternità. Questa distorsione del pensiero porta la donna a confondere il bene con il male. Ciò che per Dio avrebbe portato alla morte diventa invece occasione di vita. L’azione della donna di mangiare il frutto proibito è il risultato della decisione di rifiutare la Parola di Dio, che da amico è visto come nemico, per attuare quella del serpente che, presentandosi come un alleato si manifesta come il vero avversario.
La conseguenza del peccato è descritta con i verbi che mettono in evidenza il fatto che l’uomo e la donna si comportano coerentemente con la logica del serpente che vive con invidia, frustrazione, rabbia e paura la sua condizione creaturale, sia in rapporto a Dio che in quello con l’uomo. Il serpente è una creatura come l’uomo. La relazione con lui nasce dalla necessità di non far cadere l’uomo nell’isolamento autoreferenziale. Anche il serpente, come tutti gli animali, è stato creato da Dio come aiuto all’uomo. Ma il serpente, inquanto creatura di Dio, non accetta di essere inferiore all’uomo. Lui, con la sua astuzia ambisce a recuperare un rapporto privilegiato con l’uomo che precedentemente lo aveva misconosciuto come alleato affidabile e credibile. L’essere stato escluso da Adamo lo ha condotto a vendicarsi contro di lui, servendosi della donna che ai suoi occhi ha la colpa di aver preso il suo posto.
Senza accorgersi la donna, prima, e l’uomo, dopo, cadono nel tranello. Il peccato causa nell’uomo e nella donna un cambiamento di visione di sé assumendo la medesima prospettiva del serpente. Essi conoscono di essere nudi ma percepiscono la loro condizione come una minaccia per sé. Perciò reagiscono come fa il serpente davanti al pericolo, fugge e si nasconde. Se viene “sorpreso” reagisce mordendo per iniettare il veleno. Ed è quello che accade all’uomo e alla donna che alla voce di Dio si nascondono, ma una volta “scovati” invece di riconoscere il proprio peccato, lo imputano ad un altro accusandolo.
La nudità da condizione accettata con serenità, dopo il peccato, è invece motivo di paura. Il divieto di mangiare il frutto dell’all’albero della conoscenza del bene e del male, ovvero la condizione di limitatezza nell’esercizio della propria libertà, non è accolto nello spirito della fiducia ma, percepito come un ingiusto condizionamento, porta a nutrire nei confronti di Dio sentimenti di paura e avversione. Il comando di Dio è assunto come un abuso di potere a cui ribellarsi.
Dio cerca l’uomo lì dove ha peccato. S’istruisce un processo nel quale Dio è giudice. Egli non intende tanto appurare i fatti, che già conosce, ma indurre l’uomo e la donna alla confessione del loro peccato per ristabilire la giustizia, ovvero un rapporto di amore tra loro. L’uomo e la donna riconoscono la colpa ma invece di chiedere perdono diventano accusatori degli altri e persino di Dio. Il senso di colpa non si apre al perdono.
Interrogato sul peccato commesso, l’uomo parla della «donna» che, data da Dio perché gli stesse accanto come alleata, si è rivelata come avversario dandogli da mangiare il frutto proibito. La donna, dal canto suo, riconosce di aver peccato perché ingannata dall’astuto serpente che si è spacciato come alleato. Il peccato non ha incrinato solo il rapporto tra Dio e la coppia ma ha creato anche una frattura tra l’uomo e la donna.
Tuttavia, dopo la sentenza di Dio sembra che qualcosa cambi tra loro. Infatti, ’ādām cambia il nome di ’iššāh in Eva (Gen 3,20) perché riconosce in lei la «madre di tutti i viventi». Il cambiamento del nome indica il cambiamento di condizione. Cosa ha causato questo cambiamento? La Parola di Dio. Tra l’accusa mossa nei confronti della donna e il riconoscimento della sua dignità c’è la parola di Dio che annuncia. Ad una prima lettura sembra che Dio commini la pena conseguente al peccato. In realtà, è una vera e propria profezia perché, da una parte, denuncia le conseguenze del peccato e, dall’altra, garantisce il permanere della benedizione originaria. Della donna si esplicita il compito-benedizione di dare alla luce i figli, mentre dell’uomo è confermato nella sua identità di lavoratore della terra e “signore” della donna. La sofferenza della donna che partorisce e la fatica con cui l’uomo coltiva la terra ricordano loro che, pur essendo somiglianti a Dio, non sono Dio. La sofferenza viene a limitare il potere generativo per la donna e fecondativo dell’uomo che, ognuno per la propria parte, rischia di essere motivo di orgoglio egoistico e di ribellione. La donna, creata come aiuto all’uomo, e posta al suo fianco come alleata, riceve in dono il marito come argine al suo al suo desiderio di maternità. Similmente, la donna è donata all’uomo come limite al suo bisogno di paternità. In tal modo, l’uomo e la donna che si accolgono reciprocamente nei loro limiti, si riconoscono come un aiuto l’uno dell’altro e insieme realizzano la benedizione e portano a compimento la loro vocazione ricevuta da Dio.