Gesù è il Pastore, non fa l’attore – Lunedì della IV settimana di Pasqua (anno A)
Lunedì della IV settimana di Pasqua (anno A)
At 11,1-18 Sal 41 e 42
+ Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)
Il buon pastore dà la vita per le pecore.
In quel tempo, Gesù disse:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Gesù è il Pastore, non fa l’attore
Gesù si presenta come il Buon Pastore perché noi possiamo fidarci di lui, ascoltarlo e seguirlo con docilità. Non ci viene chiesto di entrare a far parte di una categoria di persone ma di accettare di essere amati e di diventare membri della famiglia di Dio. Quella di Gesù non è una prestazione perché lui non fa il pastore, ma è il pastore, quello bello. Dio prende sul serio la relazione con noi, non è superficiale come potrebbe esserlo un mercenario che non si identifica col pastore ma ne assume solo le funzioni. Così facendo il mercenario funge da pastore fin quando gli conviene e solamente in condizioni di tranquillità. Dio ama l’uomo fino all’estreme conseguenze. Soprattutto quando la sua vita è in pericolo a causa del peccato ed è in crisi si prende cura di lui perché ai suoi occhi la vita dell’uomo vale la sua.
Gesù ci conosce per nome, egli «sa di noi» perché «sa con noi», cioè conosce ciò che significa per noi la gioia e il dolore, la delusione e la soddisfazione, la consolazione e la desolazione. La sua conoscenza è compassione in quanto solidarietà, compartecipazione al nostro vissuto emotivo ed affettivo, ma è anche, e direi soprattutto, amore. La conoscenza dell’amore non è il movimento dell’appropriazione o della comprensione, ma quello speculare della donazione fino all’oblazione totale della propria vita.
In tal senso non siamo semplici strumenti a servizio della sua gloria, ma il fine dell’esercizio della sua potestà. Dio si prende cura di noi perché gli apparteniamo come figli e, attraverso Gesù, egli si rivela a noi come nostro Padre perché possiamo riconoscere la nostra dignità e vivere coerentemente questa vocazione. La conoscenza intima e profonda che lega il Padre al Figlio è condivisa con gli uomini. Chi si lascia coinvolgere in questo abbraccio di amore vive più intensamente i legami di fraternità. Il corpo di Gesù donato sulla croce è il pane che nutre il popolo di Dio perché formino con il suo Signore un solo corpo e un solo Spirito e al suo interno i fratelli abbiano tra loro un cuor solo e un’anima sola.
Ci lasciamo interrogare da questa parola sul modo con cui viviamo i legami di appartenenza, quelli familiari ed ecclesiali, in particolare. Nelle relazioni viviamo un amore interessato, sotto condizione, a tempo? Nel rapporto con gli altri la comprensione del prossimo si muove verso la direzione della solidarietà con il fratello/sorella o si ferma all’analisi e al giudizio? La disponibilità verso gli altri è una funzione che esercitiamo, un dovere morale, o un vero dono della propria povertà?
Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore!